Nelle sue lunghe domeniche mattina in mountain bike, mio padre ha una playlist che raccoglie artiste del calibro di Rihanna, Alicia Keys, Beyoncé, Christina Aguilera, Mariah Carey. Titolo della playlist: “CULONE”. Non difendo il sessismo di mio padre, ma il metro non lo smentisce, e d’altronde è molto difficile trovare in queste performer altri talenti al di fuori di quello che una sana dose di volere divino misto a palestra può offrire. Questa una fetta del mercato della musica pop al femminile. Dall’altro lato, quegli idoli preconfezionati per chi, da oltre le lenti dei suoi wayfarer senza gradazione, pensa di dire no a un certo tipo di musica commerciale: Lana, mi riferisco a quelle della tua risma.
Poi ci sono artisti come Charlotte Gainsbourg, Feist, Ida Maria… e Anna Calvi.
Sobria e talentuosa come le suddette, Anna fa parte di una specie in estinzione in questo decennio, ed era già ben riuscita a dimostrarcelo due anni fa col suo omonimo disco di esordio, ricordandoci quello che il mercato era riuscito a farci dimenticare: che una donna può un artista di talento e successo senza leccare martelli o piegarsi a pecora.
One Breath si apre in odore di oltreoceano, tra le chitarre fangose e riverberati di Suddenly, che ci regala una Calvi dalla calda voce soul, e il southern rock di Eliza, accattivante e sensuale, ricco di echi dei primi Kings of Leon (ps. ci mancate).
Poi, di colpo, la virata: Piece by piece sorprende per la sua base dissonante di elettronica con archi ed arpa campionati, mentre la voce, con i suoi acuti impressionanti, anticipa un delirio di distorsioni. Sorprendenti poi le code di Cry e Sing to me: mentre una sovrappone ad un basso ritmato e compressissimo curiose sonorità di xilofono, l’altra sfodera un passaggio orchestrale in pieno stile disneyano che atterra e stupisce per la sua apertura, lasciando respirare un brano fino ad allora scarno e cupo.
Tristan, con le sue facili sonorità rock anni ’80, nasconde invece una sorpresa: i frequenti cambi di tonalità che subentrano da metà brano turbano e incrudeliscono quello che sembrava un pasto precotto.
La stessa potenza disorientante di Piece by Piece ricompare in Carry me Over, dove ad inquietanti xilofoni si sovrappongono improvvise impennate di archi ed esplosioni di chitarre, in un crescendo di disagio giovanile.
Memorabile anche la title track dell’album – che dopo un paio di minuti di eterea sospensione synth tra Bowie e i Velvet Underground – scoppia in un tumulto di sonorità noise fino a lasciare emergere, sorpresa tra le sorprese – una delicatissima coda orchestrale.
Dopo le deformità distorte alla Nick Cave di Love of my life, Bleed Into Me si rivela poi lo spazio più adatto per lasciare esplodere il calore e la passionalità della voce di Anna, accompagnata quasi solo da chitarre tremolati come candele, eteree e distanti. Dopo un disco travagliato, l’artista prende l’ascoltatore per mano, e sulle note intime e raccolte di The Bridge, con i suoi cori da elegia, ci accompagna fino al silenzio.
Mi sembra evidente che tutti i timori di sindrome da secondo album non abbiamo ragione di esistere: One Breath non è semplicemente il confortevole calco del primo album della Calvi, né il frutto della sua naturale maturazione. Senza perdere in godibilità di ascolto, il disco riesce ad apportare grande innovazione nel repertorio dell’artista inglese, con soluzioni rischiose ma sorprendenti, mescolando alle sue radici cantautoriali oscillanti tra il folk ed il country nuove sonorità tra l’elettronica, dissonante e sporchissima, e l’orchestra da crooner anni ‘50. Il risultato affascina e disorienta, gioca con i cliché della musica pop seguendo la propria personale eresia, scuotendo le poche certezze di chi crede d’indovinare dove lo porterà il pezzo dalle primissime battute; per i vecchi fan di Sarabanda, scordatevi “di indovinarla con una, Enrico”.Del talento vocale di Anna – sia che si parli di timbro, interpretazione o tecnica – non si è mai fatto mistero, e la sua voce – calda e rotonda, quasi soul – si impone evidentemente come uno strumento in tutto, e anzi forse proprio quello principe.
Tuttavia, in One Breath non accade quello che tanto spesso – e tanto tristemente – accade negli album di cantanti solisti: niente più basi sottotono, infelici e trascurabili accompagnamenti di passaggio per una voce che si prende tutto lo spazio che può.
Se l’album è interessante, lo si deve anche alle riuscitissime scelte musicali, e la volontà del mixaggio punta proprio in questa direzione: scordatevi anonime basi da karaoke su cui tutti i pavarottini della musica pop possono liberamente scatenarsi, e preparatevi ad un ascolto intenso, un lavoro raffinato e collettivo, dove anche le anime degli strumentisti hanno un ruolo – se non da protagonista – di certo di primo piano.
Viene quasi voglia di parlare, più che di Anna Calvi, degli Anna Calvi, come i più grandi intenditori della scena elogiano i Bon Jovi (anche se uno basta e avanza).
Ma questa è un’altra storia.
Other People, 2013