A seguito del promettente esordio del 2007 con A Book Like This e del discreto seguito ottenuto nel 2010 con l’album Down The Way, gli Angus & Julia Stone – il duo composto dagli affascinanti e virtuosi fratelli Stone – sono arrivati al temuto e allo stesso tempo tanto sospirato traguardo del terzo disco. Dopo vari progetti solisti che li hanno portati ad intraprendere percorsi paralleli su strade ancora mai battute, a distanza di quattro anni tornano insieme unendo di nuovo i loro talenti e in meno di quattro mesi danno vita a quest’ultima creatura musicale.
Angus & Julia Stone – che è pure il titolo della raccolta – è forse ad ora il lavoro più interessante e policromo della formazione di Newport, (a poche miglia di distanza da Sydney) e vede la partecipazione del leggendario produttore newyorkese Rick Rubin. Ad una prima occhiata sembrerebbe un bislacco omone barbuto sbucato fuori da una foto segnaletica di un poliziesco americano di quart’ordine, ma la realtà è ben diversa: sotto le sue mani sono infatti passati artisti quali gli Slayer, i Rage Against The Machine, Johnny Cash, i System Of Down, Adele e molti altri. Ed ora ad aggiungersi alla serie anche Angus e Julia, spigliati e con i cromosomi dalla loro, finalmente usciti dal bozzolo che li avvolgeva; lui, un Robinson Crusoe del Duemila, lei, faccino rotondo e pulito da ogni traccia di rimmel o malizia.
L’accoppiata fratello-sorella è già di per sé un’ottima strategia di marketing – ne sanno qualcosa i White Stripes – se poi entrambi hanno effettive doti canore e voci completamente diverse che insieme si sposano che è una meraviglia, allora l’entourage del duo australiano ha decisamente saputo fare i propri calcoli. Le chitarre acustiche e i chiaroscuri polverosi appartenenti al loro bagaglio folk ci sono ancora, ma ad aggiungersi sono anche le tante e nuove sperimentazioni legate a generi distanti da ciò che ci hanno abituato ad ascoltare in precedenza.
Si va dall’aprifila Heartbreak, che suona come un manifesto d’intenti attraverso il suo groove spietato come una lama conficcata nel petto alla funkeggiante Grizzly Bear, che con le sue rifrazioni lounge è pronta per essere gustata al tramonto, non prima però di essere passati attraverso le note di My Word For it, che ad occhio e croce è impossibile non condividere con Julia come se si trattasse di una sbronza sonnacchiosa. In questo disco c’è il meglio e il peggio del panorama indie-rock degli ultimi dieci anni (dipende dai punti di visti): troverete un po’ di Paolo Nutini in Angus mentre arrangia con la chitarra Get Home, vedrete uno dei tanti volti di Cat Power in Main Street, la più bella versione di Tori Amos in Death Defying Acts e probabilmente non saprete se odiare o amare la base pop di From The Stalls che ricorda un singolo dimenticato in un cassetto da Lana Del Rey.
Rimane lo spazio anche per qualche accordo prolungato e per dei colpi secchi sul rullante come se alla batteria fosse seduto Ivan Followilll dei Kings Of Leon (Little Whiskey) e per le ballate più romantiche (Wherever You Are, Please You) che non devono mai mancare ad un falò sulla spiaggia, quando il vento comincia ad alzarsi e tutti si stringono vicini vicini come nei film quando tra i protagonisti scatta sempre il limone. Tra i momenti più alti del disco ci sono però Heart Beats Slow e Crash And Burn che in modo differente, ma ugualmente d’impatto colpiscono l’ascoltatore, emozionandolo e in alcuni casi commuovendolo, intenerito dalla voce morbida ed angelica di Julia e da quella spiazzante ed ubriacante di Angus.
Provate ad attaccare al vostro stereo le tredici tracce di Angus & Julia Stone durante uno dei vostri viaggi, quelli da bollino nero, rosso, giallo, non importa, fatelo e sentirete un po’ del retrogusto bohémien europeo, vi allungherete verso la selvaggia Australia, respirerete il senso di libertà dell’America, sarete affascinati dall’Africa inesplorata e verrete toccati dallo spiritualismo dell’Asia. Scaldate il motore e partite alla volta dei cinque continenti, non vorrete più tornare indietro.