Quando si pensa al Missouri le prime cose che vengono in mente sono probabilmente le origini del Blues, il Mississippi con le sue storie di fuga dalle piantagioni, i primi battelli borghesi che salutavano le colonie e i primi songwriters neri che componevano per fuggire dall’alienazione rude e povera dei successivi e tragici tempi. Incredibile come da queste radici possa venir fuori un simile cantautorato delicato e femminile, bianco e soffice, disperato e tragico ma sicuramente non urlato e ostentato della stupefacente Angel Olsen.
Dal primo minuto di Burn Your Fire For No Witness ci possiamo immediatamente arrendere: di fronte alla struggente interpretazione di Unfucktheworld e alla voce spezzata, piangente, sibilata ma al tempo stesso carica, concretizzata nella devastante nenia ipnotica del verso I am the only one now, I am the only one now, I am the only one now, non possiamo far altro che inchinarci e continuare ad ascoltare.
La Olsen non ci risparmia momenti di rabbia e concretezza, con Forgiven/Forgotten e con Stars: riff carichi di odio, assoli distorti e batteria incalzante fanno da contraltare ad una voce questa volta graffiante e mordente, che si aggrappa alle note a stento e le insegue con affanno e fatica. Ma è un bluff, è tutto studiato, è tutto voluto, è tutta misurata e ponderata suggestione.
Dal punto di vista dei testi la cantautrice ci regala dei bei momenti particolarmente intensi, attraverso l’uso di domande retoriche come in Hi-Five e con il bel passaggio But I’m giving you my heart, my heart / Are you giving me your heart? / Your heart / Are you lonely too? / Are you lonely too? La ricercatezza dei testi la si può ritrovare in Iota e con le sue anafore che si ripetono ad ogni strofa: “If only” all our memories were one… “if only” we could turn ourselves around… “if only” all our dreams were coming true… “if only” all our hopes were to be here etc, etc. accompagnate da percussioni lievi e da pizzichi di chitarra acustica compassati e mai invadenti. A cercare bene, il disco è pieno di simili ricercatezze.
Un posto particolare è occupato da quello che è il pezzo più ispirato e intimista dell’intera opera: White Fire. Una chitarra arpeggiata e ridondante accompagna una voce sussurrata, che ci confessa le più initime e struggenti visioni: sette minuti di perfezione lirica e di narrazione onirica, di emozioni pure, dolorose, addirittura genuine. Il bellissimo passaggio conclusivo è scolpito con la lapidaria e suggestiva strofa «If you’ve still got some light in you then go before it’s gone / burn your fire for no witness / it’s the only way it’s done / fear, sunlight, and you / fear, sunlight, and you / hit the ground and run / hit the ground and run»
Le canzoni citate fin qui sono quasi prese a caso, ogni pezzo meritava una sua descrizione, un suo approfondimento o quantomeno una riflessione. La Olsen sembra la Karen Dalton di Take me proiettata nel futuro ma con meno pretese di immortalità, meno capacità tecnica ma con lo stesso approccio emotivo e interpretativo: una (ri)scoperta degna di nota e un disco da consumare come non se ne sentivano da un bel po’.
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01 Unfucktheworld
02 Forgiven/Forgotten
03 Hi-Five
04 White Fire
05 High & Wild
06 Lights Out
07 Stars
08 Iota
09 Dance Slow Decades
10 Enemy
11 Windows