Sembra esserci una regola negli ultimi tempi: maggiore è l’hype che viene creata per l’uscita di un disco, maggiori sono le possibilità che lo stesso si riveli un flop.
L’anno scorso è successo con Random Access Memory, che se non è proprio bruttissimo, neanche è riuscito ad essere il miglior disco dell’anno come in molti si aspettavano.
Questo è l’anno degli Alt-J.
Già, tutta l’attesa spasmodica per l’uscita del seguito di An awesome wave che (quello sì) fu tra i dischi migliori del 2012, poi gli annunci e le uscite dei primi tre singoli in poche settimane (Every other freckle, Left hand free e Hunger of the pine), poi ancora le anteprime per un disco che neanche lontanamente è paragonabile al suo predecessore.
Intendiamoci This is all yours non è poi terribile, ma gli Alt-J non riescono assolutamente a bissare il successo dell’esordio; grande assente il groove.
Gli inglesi orfani di Gwil Sainsbury, tentano la via del mood rarefatto, ma confezionano un disco, che pur con una produzione raffinata, suona poco caratterizzato, sciapo. Le modulazioni vocali di Joe Newman sono indiscutibili, ma non riescono a reggere da sole tutto il peso dell’attesa.
Il disco ha anche dei buoni pezzi, i singoli per me lo sono (sì lo so, Left hand free non c’entra nulla, hanno dichiarato di averla scritta per smacco all’Atlantic, ecc., ma presa singolarmente non mi dispiace), ma in mezzo nella tracklist sembra che ci siano dei buchi, pezzi che sembrano solo un sottofondo tipo Arrival in Nara e Nara che dopo un Intro un po’ troppo prolisso che ha in nuce tutti i difetti del disco, proprio non riescono a essere tracce significative. Stessa cosa per Choise Kingdom e la sua intro bucolica Garden of England (ci ho visto un’analogia fortissima con il Mattino di Edvard Grieg), alte punte di intimismo che sembrano voler mascherare la poca sostanza.
E purtroppo la cosa non migliora dopo il terzo singolo in scaletta.
Ad eccezione di The Gospel of John Hurt con la sua melodia in crescendo che riesce a fare da spalla opportuna alle doti vocali di Newman (che a questo punto sono rimaste l’unico punto di forza del sound degli Alt-J), la tranche finale del disco non riesce in nessun modo a risollevare la china. Anzi quando sul finale, anche ad un ascolto distratto, si riconosce la frase “see O-double-M-O-N” e ci si rende conto che la canzone è Bloodflood pt.II non si può non fare il paragone con la Bloodflood presente nel lavoro precedente; il confronto a mio modo di vedere rende vani tutti i tentativi di mascherare la carenza di sostanza; è lì e nessuna finezza in fase di produzione al mondo può farti cambiare idea.
Gli Alt-J sono tornati che sembrano l’ombra di loro stessi e la conclusiva Leaving Nara anche se dà al lavoro il piglio di un concept album risulta una benedizione.
Personalmente non ce la facevo più a sopportare lo strazio di un gruppo che ho amato tanto.
Infectious, 2014