Le elezioni europee si avvicinano, inesorabili per alcuni e all’insaputa di molti altri. Al di là delle forti valenze politiche per l’Italia (sì, il senato esiste ancora, e lo stesso vale per metà porcellum, e Berlusconi è ancora un “padre della patria”), il tema che ha catalizzato il dibattito negli ultimi mesi è stato fondalmente uno: come contrastare il probabile successo elettorale delle forze antieuropee.
Quali le ragioni di questo “terribile presentimento”, del terrore dell’avanzata dei barbari? Basta leggere un qualsiasi sondaggio per farsi un’idea della profonda crisi che il progetto europeo sta attraversando: secondo Demos, nell’ottobre 2013 un italiano su tre, con un picco del 43% tra gli elettori del M5S, dichiarava che il nostro paese avrebbe dovuto abbandonare l’Euro, mentre la fiducia complessiva nell’Unione raggiungeva il punto più basso di sempre, con un calo del 20% negli ultimi dieci anni.
Contrastare una sfiducia del genere diventa molto difficile, soprattutto da parte di quei partiti che, europeisti per ideologia, interesse (o, perchè no, disinteresse), sono stati parte attiva nella formazione delle politiche comunitarie a base di austerity degli ultimi anni. Chi (il PD) sostiene la candidatura alla presidenza della Commissione Europea di Schultz , presidente del Parlamento in carica, o Juncker, primo presidente dell’Eurogruppo, (FI e NCD) si ritrova a combattere una battaglia ad armi impari, dovendo necessariamente rinunciare alla possibilità di criticare quelle istituzioni che essi stessi, a giudicare dalle candidature, dimostrano di apprezzare.
Questo imbarazzo, questo limite autoimposto alla possibilità di dissentire, criticare, dissociarsi, soltanto per evitare di prestare il fianco agli attacchi del fronte opposto, è palpabile nei dibattiti televisivi, dove gli agguerritissimi antieuropei e critici spadroneggiano, anche quando le argomentazioni sono più deboli. E se la situazione è tragica per i candidati, “costretti” ad un assenso rigido, meccanico, lo stesso vale per i loro leader, che non sembrano aspettare altro se non un pretesto per poter tardivamente o goffamente criticare l’Europa, cavalcando l’onda. A bassa voce, però, mi raccomando.
Cavalcare l’onda della sfiducia nei confronti dell’Europa, appunto, sembra essere la scelta giusta da fare, al momento. Come in un orribile film della Troma, Surf Nazis must die, misteriosamente presentato a Cannes nel 1987, i surfisti dell’antieuropeismo, il M5S, la risorta Lega e persino Fratelli d’Italia, che pure aderisce al PPE, dominano la scena politica chiedendo, in ordine sparso e con differente convinzione, l’uscita dall’Euro, la ridiscussione del trattato di Lisbona, l’abolizione del fiscal compact e del fondo “salva stati”. Insomma, l’obiettivo è smantellare totalmente quanto costruito negli ultimi vent’anni al di sopra della sovranità nazionale, identificandolo come un sopruso o una capitolazione nei confronti dei mercati finanziari. Nume tutelare di questa fazione (con l’eccezione di Grillo) è Marine Le Pen, regina del nazionalismo francese, reduce dal successo, più mediatico che concreto, ottenuto alle elezioni locali in Francia.
Nel film, la gang dei surfisti, vista l’impotenza di chi dovrebbe intervenire, viene sconfitta da “Mama”, un’anziana signora afroamericana, obesa e armata di granate. Capisco che il paragone sia abusato, e spero mi scusiate per questo, ma farà bene a tutti porsi questa domanda per l’ennesima volta: può Tsipras essere l’anziana sovrappeso che ci salvera dai surfisti dell’antieuropeismo? La risposta non è così semplice come appare.
Credit: Martin Godwin
Alexis Tsipras, 39enne leader del partito greco Syriza, fortemente critico nei confronti dell’austerity imposta dalla Troika e, anche per questo, molto popolare nel paese, è il candidato alla presidenza della Commissione Europea da parte della sinistra europea GUE. In Italia, l’input per la sua candidatura è stato un appello, apparso su “il Manifesto”, a cui si sono in seguito aggregati, seppur tra numerose polemiche (qui e qui), alcuni partiti e movimenti italiani, tra cui Sel, Rifondazione Comunista e Azione Civile di Antonio Ingroia. La vera novità portata da Tsipras sta nella sua posizione, perfettamente mediana tra i due fronti principali della battaglia: quello che è da capire è se finirà vittima del fuoco incrociato o se questa soluzione, paradossalmente “democristiana”, nel suo ostentare paternalistica comprensione nei confronti dei rivali, non si dimostri di successo. Se, da un lato, infatti, “L’altra europa” (questo il nome del movimento italiano) osteggia profondamente le politiche di austerità e deregulation dei mercati, identificate come la vera causa della disaffezione nei confronti dell’Europa, dall’altro si batte per una ripartenza del progetto federalista, per il potenziamento del Parlamento Europeo nei confronti della Commissione, in un programma che alterna critiche ai limiti dell’abiura a dichiarazioni d’amore degne di Nat King Cole, probabilmente le uniche che vi capiterà di ascoltare in questo momento storico.
Forse proprio questo sentimento, ai limiti del bipolarismo, è la migliore sintesi del pensiero di buona parte dei cittadini europei, soprattutto nelle regioni meridionali. Se da un lato è frustrante constatare l’inefficienza del meccanismo rappresentativo e la timidezza delle istituzioni nell’affrontare le vere motivazioni della crisi economica, dall’altro la paura di diventare irrilevanti nel contesto globale (come spiegano Negri e Bauman) associata all’uscita dalla UE rende la possibilità di cambiare la realtà dall’interno la scelta più realistica e meno drammatica possibile.
Riformare l’Europa come unica soluzione ai problemi del mondo, insomma: una visione avventurosa che rischia però di scivolare facilmente nella banalità e in un populismo di stampo opposto a quello antieuropeo. Due, almeno in Italia, rimangono a mio parere le maggiori, e non trascurabili, problematicità della lista Tsipras.
La prima: la dimensione e la natura della lista. Il motivo del successo di Tsipras in Grecia è stato quello di aver aggregato i piccoli partiti della sinistra sotto la bandiera dell’anti-austerity, ponendo fine alle loro divisioni interne. Al contrario, “L’altra europa”, orgogliosamente costruita dal basso, è dovuta ricorrere al sostegno dei partiti della sinistra per aggregare voti nel poco tempo disponibile. Se in Germania Tsipras può contare sul solido sostegno della “Linke”, in Italia la natura movimentista e fortemente personalistica, nonché la storica frammentarietà della sinistra, non lasciano presagire un progetto duraturo per il futuro né alcuna prospettiva di riavvicinamento per le forze progressiste. Sappiamo bene, infatti, come sono finiti, anche in tempi recenti, questi aggregatori delle “diverse anime della sinistra”.
Il secondo nodo è quello delle candidature. Anche in questo senso, il poco tempo a disposizione ha spinto all’inserimento di personaggi dichiaratamente “da traino” nelle liste, che rinunceranno al posto in parlamento in caso di elezione. Come ha osservato, tra gli altri, Luca Sofri, questo comportamento tradisce le stesse regole elettorali (le preferenze) e distorce in maniera importante le scelte dell’elettore, in aperto conflitto con obiettivo di porre fine alla crisi di rappresentatività europea. Oltre a questo, è discutibile la scelta di candidare parallelamente alcuni candidate in più circoscrizioni, come veniva contestato al Porcellum made in Calderoli.
Se la politica europea è in crisi, quello di cui c’è bisogno è un cambio di passo nell’impegno da parte di politici e cittadini. Non è più il momento delle prese di posizione ed appelli: per costruire una politica credibile occorrono partiti, e, di conseguenza, istituzioni credibili. Per crearli c’è bisogno di idee, strutture, progetti unitari, condivisi, partecipati, e questo il fondatore di Syriza dovrebbe saperlo molto bene.
Cover credit: Milos Bicanski