È uno dei personaggi più chiacchierati degli ultimi tempi, per la sua natura da sempre immune alle logiche di asservimento politico e per la creatività dei suoi lavori, fra installazioni, lavori fotografici, video, dipinti e raffinate opere di design in cui etica e bellezza si sposano alla perfezione.
Arte e dissidenza rappresentano un binomio inscindibile intorno al quale si snoda tutta vita di Ai Weiwei, artista e attivista cinese nato a Beijing nel 1957 da un noto poeta vittima delle persecuzioni maoiste durante la Rivoluzione Culturale.
Sarà proprio questo clima d’ingiustizia, vissuto sulla pelle di figlio prima e su quella di dissidente poi, a fomentare la tensione all’attivismo politico che nel percorso di Ai Weiwei coinciderà sempre con quello artistico.
Sì, perché la sua è una concezione dell’arte che prende le distanze da certe pretese di esclusività ed elitarismo culturale e che, anzi, fa dell’oggetto artistico un forte strumento di potere e cambiamento sociale.
Lo sa bene il regime cinese che, spaventato come tutti i conglomerati di potere dall’arte e dal suo linguaggio universale, ha arrestato Ai Weiwei l’anno scorso con l’improbabile accusa di frode fiscale, dietro cui si cela la volontà – prevedibile – di confinare nell’ombra quelle voci non allineate al coro della dittatura.
Da quel momento Ai Weiwei è diventato il simbolo della lotta per i diritti umani in Cina, scatenando una mobilitazione tanto nel mondo dell’arte contemporanea, quanto nella società civile. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato una petizione per chiedere la sua liberazione e più di 30mila donatori anonimi lo hanno aiutato a pagare una costosissima cauzione. In breve tempo Ai Weiwei è diventato un artista di cui è pericoloso pronunciare il solo nome, pecora nera di un potere che in passato lo aveva esaltato quando aveva preso parte al progetto dello stadio che ha ospitato le olimpiadi, il famoso ed imponente “Nido d’uccello”.
Un lavoro da cui l’artista ha poi preso le distanze, assumendo una posizione sempre più critica nei confronti del governo cinese attraverso azioni di rivolta per cause importanti come lo sciopero della fame dopo la strage di piazza Tienanmen nel 1989, la denuncia alla censura della rete nel 2007, fino all’avvio di un’indagine pubblica, assieme all’ambientalista Tang Zuoren, sulle cause del crollo di edifici scolastici nel terremoto del Sichuan, accusando apertamente le autorità locali e pubblicando per la prima volta i nomi di oltre 50000 vittime sul suo blog, presto oscurato dalle autorità cinesi.
Da allora Ai Weiewei è sotto sorveglianza e non può uscire dal Paese, ma la sua lotta, civile e artistica, non si è mai fermata. Anzi, continua più forte e vitale che mai, lungo i binari di un percorso umano in cui il gesto artistico è da intendersi sempre come politico – nell’accezione più ampia del termine – in quanto capace di generare riflessione, critica, azione.
Non l’art pour l’art: l’atto creativo implica una presa di posizione ben precisa, un coinvolgimento, un giudizio sulla realtà che ci circonda, a cui nessuno può sottrarsi.
È in questo senso che, nell’ambito del suo percorso artistico, Ai Weiwei può essere definito come un ribelle iconoclasta, interessato solo alla potenza dell’immagine e alla riflessione che da essa scaturisce, incurante di sviluppare un preciso stile artistico, che tuttavia trova il suo comune denominatore nella provocazione mai fine a se stessa, caratteristica che contraddistingue i suoi lavori più famosi.
Come nella serie di fotografie intitolata Studi di prospettiva in cui, prima di Cattelan, nel 1997, alza il dito medio davanti alla Casa Bianca, alla Tour Eiffel e in piazza Tienanmen, la stessa piazza in cui poi ritrae sua moglie Lu Quing in mutande nel quinto anniversario della repressione della primavera di Pechino, in segno di chiara sfida al potere.
O come le opere in cui denuncia l’immobilità della cultura e dei suoi feticci. Sono famose, per esempio, le immagini fotografiche che lo ritraggono durante una performance in cui distrugge un vaso della dinastia Han, a indicare la volontà di liberarsi della cultura storica imposta, o ancora come nel caso di Han Dynasty Urn with Coca-Cola Logo (1994), dove utilizza la porcellana per riprodurre vasi antichi dipinti col logo della Coca Cola, a rappresentare una collisione tra memoria e cultura tradizionale e la società contemporanea.
Ancora, in Paesaggi provvisori (dal 2002 al 2008) denuncia la distruzione dei quartieri tradizionali di Pechino e di altre città, affermando che anche l’architettura è un processo che coinvolge persone e vite e non è privo di conseguenze; così come nell’installazione Template (2007) in cui sopravvivono porte e finestre di case della dinastia Ming e Quing, distrutte per far spazio a grattacieli e centri commerciali in seguito al selvaggio processo di modernizzazione.
E poi c’è Sunflower Seeds, l’installazione più imponente che Ai Weiwei ha realizzato per la Tate Modern di Londra: 100 milioni di semi di girasole in porcellana, piccole sculture dipinte a mano dagli artigiani di Jingdezhen, città tradizionalmente nota per i lavori di ceramica, che riempirono nel 2010 la Tourbine Hall londinese.
Il Made in China dissolve e disperde l’identità culturale, ma i semi di Ai Weiwei mostrano la nuova nascita della Cina: all’immagine di una popolazione che lavora ciecamente alla produzione industriale di oggetti inutili e scadenti, la passione di centinaia di artigiani di Jingdezhen, soprattutto donne.
Metafora della produzione di massa contro l’economia locale. Un’installazione che è un po’ il ritratto della Cina e del suo popolo, mille piccoli volti tutti uguali ma solo in apparenza, perché a guardar bene, si scorge presto una moltitudine di piccole anime scolpite e dipinte a mano, diverse eppure parte di una stessa comunità. Quella cinese, con la sua storia millenaria e le sue tradizioni, la sua anima scalpitante e viva più che mai. Che continua a respirare anche sotto i colpi scellerati di un regime che prova con ogni mezzo a offuscarne la libertà e la bellezza. Eppure, nonostante gli arresti, le manganellate, le censure, le violenze, non ci riesce. Come l’arte di Ai Weiwei c’insegna.