CASA DELLA MUSICA, NAPOLI – 15/03/2013
A un concerto di un gruppo come gli Afterhours (sporchi, rotti, infami, belli, sudati, eleganti in quella divisa bianca) non si può che arrivare in ritardo, coi nervi a fior di pelle che ti scavano gli occhi, la fronte corrucciata, beotamente felici col sorriso sulla bocca e lo stomaco vuoto. Però non dimenticare mai le sigarette, perchè la chitarra di Xabier Iriondo, il violino di Rodrigo D’Erasmo e la voce di Manuel Agnelli, chiamano boccate d’aria e tabacco che sono fisiologiche, mentre ti muovi, perchè esiste una certa generazione di musica che esercita un trasporto sul tuo corpo. Lo sanno bene i Rolling Stones, lo sa bene Mick Jagger che come un vate del carisma ti trascina a una danza negra, e lo sa bene il pubblico degli Afterhours ormai da anni: bisogna muoversi per sopravvivere, portare il ritmo.
Per anni l’Italia della musica alternativa ha vissuto una terribile diatriba tra Marlene Kuntz e Afterhours (con incursioni di Verdena a caso) che ha assunto i toni di qualcosa di culturale: mentre i Marlene venivano dal noise di fine ’80 gli After avevano il sapore del rock più classico, quello che ad occorrenza sa fare roll. Una divisione ideale tra chi preferiva cantare attraverso la voce strascinante di Godano o urlare come Agnelli: poi è successo che i Marlene hanno iniziato a ripulire il loro sound, e gli Afterhours hanno preso a curarne sempre di più la vena rock & roll. C’è chi ha interpretato come un tradimento quello di Godano e compagnia, mentre dall’altro lato della barricade Manuel Agnelli restava fedele a una sua linea ideale, all’occorrenza continuando a cantare come un dio del rock dal palco, senza tradirsi nelle sue vene polemiche, puro e duro anche nell’antipatia che riesce ad attirarsi. La sensazione è che con Padania il suono degli Afterhours si sia affinato ancora di più, e quindi anche scavare nel passato dei successi della band sia un’esperienza assolutamente straordinaria (nel senso di extra-ordinario).
Manuel è quel tipo che nell’intonare ”sei borghese arrenditi” (cfr. 1996) può ancora essere preso sul serio. C’è forza nelle parole, direbbe un suo caro amico. E quando sei sincero la forza delle parole può benissimo passare magicamente dal palco verso il pubblico, e così succede anche alla chitarra, e al violino che cominciano a scavarti la pelle, perchè questa è una di quelle band che ti dà qualcosa: è difficile oggi come oggi nel mare magnum di progetti alternativi (micro e macro) sentire veramente la musica addosso. E’ difficile avere voglia di rivedere un concerto che hai appena visto. O tornare a casa trascinati da una forza malata per risentire l’ultimo album verace della band con orecchie più vive. Ma è questo che capita.
C’è una trombetta che su disco a primo ascolto è abbastanza fastidiosa in Costruire per distruggere, ma basta sentirla più volte per capirla: in fondo è un pezzo dove ci sono i classici accordi degli Afterhours, cose che abbiamo sentito già risuonare in Dentro Marilyn. E tutti i pezzi di Padania sono fantastici: quando Manuel Agnelli si mette alle tastiere per La terra promessa si scioglie di colpo qualcosa si scioglie anche sulle tue braccia, è la pelle d’oca di una album bellissimo. Perchè gli Afterhours vanno capiti dal vivo: mentre ti trascinano a danzare Male di Miele ed Elymania. Ho tutto in testa, dici, ma non riesco a dirlo: siamo affogati in un vagone di distanze, lo senti quando canta Bye Bye Bombay, canzone che è ancora eccezionale, perchè ci sono le parole, perchè c’è il sentimento, perchè cantare in camicia bianca urlando che non hai la camicia bianca addosso è il cuore di questa generazione perduta che segue gli After da tempo immemore.
”Siete il miglior pubblico di Napoli degli ultimi anni” ci tiene a dire Manuel Agnelli dal palco a un certo momento imprecisato del live, ed è anche un’offesa – volendo – per chi ci è sempre stato, per chi c’era quando a qualcuno venne in mente di buttare del vino addosso alla band. Ma lo sai che ora è cambiato qualcosa, che si sono aperte le porte di una generazione stanca e viva assieme, è la Metamorfosi. Ci sono cose che restano uguali, ci sono movimenti impercettibili che tendono a cambiare. La Vedova bianca con quella sua apertura batti-mano in aria ”c’è qualcosa dentro di me che è sbagliato e non ha limiti / c’è qualcosa dentro di te che è sbagliato e ci rende simili” è poesia che vi regalano dal palco: voi mettetevela nel taschino della giacca tutti i santi i giorni, pensando alla meraviglia umana della chimica che fa saltare la libertà di essere simili e interamente sbagliati al mondo. Il punto è fondamentalmente questo: a inizio Novecento per molto tempo chi si sentiva ”diverso” dal sentore comune poteva anche soffrire queste differenze. Poi sono arrivate vere e proprie rivoluzioni come il punk e il grunge, Kurt Cobain gridava Nevermind, e in quelle urla sofferte ribadiva: ebbene sì, sono diverso, ma questa può essere una qualità. Al di là della moda del provare a sentirsi storti perchè fa fico degli ultimi anni, per chi è sinceramente avviluppato nei nervi del sentirsi distanti dal gregge, certe parole fendono. Un certo tipo di sound colpisce. Come La sinfonia dei topi.
Non so perchè, ma ci hanno fatto venire voglia di vestirci di bianco, di restare autentici, di non mandarla a dire, di guardare negli occhi qualcuno come una rivelazione, di restare acustici e altrettanto elettrici, di affogare la disperazione nella rabbia. Come cucchiaini di caffè da sorseggiare. Forse è questo che ci fa bene, nostro anche se ci fa male.
(Foto a cura di Serena Salerno)