Quando penso ad Alfred Hitchcock, mi vengono in mente un sacco di cose: il finto piano sequenza di Rope, gli aneddoti sulla spilorceria di inizio carriera, le permanenze in Italia, i trascorsi con la critica britannica. Ma più d’ogni altra cosa, mi viene in mente quell’innata capacità di tenerti incollato allo schermo, sempre e comunque, sciogliendo l’arcano a metà, all’inizio o alla fine. Totalmente indifferente, per l’economia del film.
In molti hanno mutuato questa sorta di complicità narrativa.
Ad esempio, nel suo ultimo film, David Fincher decide che sessanta minuti sono più che sufficienti, che ci siamo ammattiti abbastanza, quindi tanti saluti al cruccio, e chi s’è visto s’è visto. Si impone un nuovo occhio sulla vicenda, un intrigante ribaltamento di fronte. Il secondo segmento del film, per quanto magnetico e dal sapore on the road, si rivela essere un’inerziosa passeggiata nella direzione già marcata dal primo. Una sfilza di inevitabili conseguenze si materializzano in serie, insomma, un po’ di catechesi immanentistica sul valore delle azioni, sul passato che ritorna a prenderti, sul tema del doppelganger applicato alla vita coniugale, sul processo kafkiano e via discorrendo.
Se c’è una cosa che continuo a non sopportare, premettendo che apprezzo molto il cinema di Fincher, è quest’impronta registica che bypassa la forma: insomma, è come se ad ogni maledetto film dovessi azzerarmi, educarmi da capo, esser pronto a virate stilistiche radicali, e la cosa comincia a stressarmi. Dai primi anni 90 ad oggi, sempre la stessa storia. Non fosse per la fotografia (curata dal fedelissimo Jeff Cronenweth), forse la sua produzione mancherebbe di equilibrio, di quella prevedibilità che ha sempre accompagnato i grandi maestri, persino i più rivoluzionari, i più visionari, i più indomabili.
Tralasciando qualche imperdonabile calo di tensione, il film si lascia scrutare, scongiurando catalessi e premature ritirate. Finale andante, ben orchestrato, seducente, tutt’altro che monco. Alcune questioni rimangono oscure, alcuni dubbi diventano dogmi, ma è un thriller, non l’istruttoria di un procedimento penale, santiddio.
Occhio ai personaggi
È capitato a tutti di partorire un paio di parole ingrate osservando Ben Affleck davanti alla macchina da presa.
“Troppo affettato” “Ha la stessa faccia quando ride e quando piange” ”È insipido”, o addirittura “Preferisco Matt Damon”.
Adesso provatemi a dire che uno così non è perfetto per indossare le due maschere di Nick Dunne, senza mai tradire un’emozione autentica. E poi, detto tra noi, Ben non è questo gran disastro. Intendo dire che c’è di peggio, insomma. Per esempio Matt Damon.
Neil Patrick Harris = Barney Stinson. Marchiato a vita. Quando compare la sua foto, scoppio a ridere. Uno sguardo a destra, uno a sinistra, uno alla platea: sono l’unico a non essersi goduto il raffinato profilo del personaggio (che recita Proust a memoria e mastica sinfonie come chewing-gum) e ad aver pensato tutto il tempo “Troppo divertente! Un crossover con HIMYM!”.
Rosamund Pike non decifrabile. Interpreta un ruolo torbido in maniera talmente ambigua da risultare quasi convincente. Meglio come vittima che come carnefice, decisamente.
Emily Ratajkowski: un ulteriore incentivo per chi non leggerà tutto il resto dell’articolo, perché della trama e dell’impianto filmico, giustamente, non gliene frega un emerito. Ecco perché il grassetto, ed ecco perché la foto non ha nulla a che vedere con il film.