Se dovessi immaginare la bella St. Vincent (questo il nome, che le è piaciuto tanto da farlo suo, del luogo «where poetry comes to die», l’ospedale citato in una canzone di Nick Cave in cui il poeta Dylan Thomas è morto) nei panni di un personaggio appartenente ad un altro contesto, la assocerei ad un Willy Wonka impeccabile nei suoi abiti inamidati e scintillanti, irraggiungibile nell’unicità della sua inventiva e irreprensibile nella consegna di prodotti che nessuno poteva immaginare e che ora, chissà come, amano tutti alla follia.
Non è del resto un segreto che la stessa Annie Erin Clark, così battezzata, si consideri funambola sul limite tra follia e simmetria, contorsionista dell’eleganza e domatrice del caos. Ed è forse proprio questa consapevolezza a conferire alla sua musica la credibilità che è doveroso riconoscerle e che l’ha spinta a rimboccarsi le maniche e a sezionare, con precisione chirurgica, il corpus delle soluzioni trite e ritrite giunte sul mercato musicale finora per ricomporlo secondo la logica dell’imprevedibile.
Dopo Marry Me (2007), Actor (2009), Strange Mercy (2011) e Love This Giant con Byrne (2012), ecco la nuova pubblicazione: il self-titled, St. Vincent, uscito il 24 febbraio per la Republic Records. Quest’album rappresenta il raggiungimento di una maturità a più livelli che le deriva dal naturale progredire del percorso di crescita artistica e dall’incontro con le eventualità – vedi il buon vecchio Byrne – che l’hanno inevitabilmente portata ad evolversi.
Prima di perdermi nella descrizione dei pezzi, vorrei sottolineare che, per quanto sembra essersi nutrita di ogni singola fonte di ispirazione che ha incontrato lungo il suo iter creativo, la sonorità di St. Vincent è quanto mai peculiare e simile solo a se stessa. In tal senso la scelta di auto intitolare la sua opera ultima è ancor più significativa e celebrativa della certezza della propria identità. Ed ecco da dove deriva il coraggio di questo lavoro.
Andando alla critica, tutto ciò che ho letto a riguardo comincia raccontando dei synth scoppiettanti di ‘Rattlesnake’ e procede in ordine cronologico per una descrizione quasi archivistica degli undici pezzi. Sono convinta, invece, che per capire le intenzioni del disco sia necessario partire da ‘Digital Witness’. Il punto della scrittura di St. Vincent è quello di dimostrare la distinzione sempre più labile tra realtà e irrealtà e di riconoscere il limbo in cui la dimensione digitale nella quale oggi viviamo ci lascia sospesi:
«People turn the TV on and it looks just like a window […] Digital witnesses / What’s the point of even sleeping / If I can’t show it / If you can’t see me / What’s the point of doing anything? […] So I stopped sleeping / Yeah I stopped sleeping / Won’t somebody sell me back to me?».
Non so quanto ragionata sia stata la decisione di porre il brano, di chiara matrice byrniana (a dimostrarlo sono soprattutto gli ottoni incalzanti che erano sparsi un po’ ovunque in Love This Giant), proprio a metà dell’album, come fosse un nucleo attorno al quale gravitano gli altri, ma trovo che sia molto sensata.
A precederlo è ‘Huey Newton’, pezzo dedicato all’incontro con il fondatore del movimento dei Black Panthers, morto nel 1989, durante le allucinazioni causate da un tranquillante che la Clark avrebbe preso solo per non sentire il peso del jetlag. A un delicato inizio con le note di una tastiera ovattata segue un rock sfacciato, senza orpelli o definizioni aggiuntive.
A raccontare un’altra esperienza «from the edge» è ‘Birth In Reverse’, il primo singolo estratto: un altro rock di chitarra distorta, quasi a tempo di ska, privato di ogni suono superfluo – forse perché parlare di questa inaspettata “nascita all’indietro”, cioè la morte, è già abbastanza incredibile.
Per tornare alla realtà, troviamo due pezzi di simile trama melodica, due delicate dediche sentimentali e, a tratti, irrimediabilmente struggenti.
‘Prince Johnny’, dice St. Vincent in un’intervista, spiega quel sentimento misto di compassione e arrendevolezza che si prova nei confronti di un amico che vive di autodistruzione e che, allo stesso tempo, non può essere giudicato da noi, perché noi siamo esattamente come lui.
‘I Prefer Your Love’ è sicuramente una delle canzoni emotivamente più incisive composte dalla Clark. Scritta durante un periodo di malattia della madre, racconta di come è in lei che la musicista cerchi forza e conforto e di come, al contrario, né Gesù né la Bibbia siano mai stati in grado di aiutarla realmente nel momento del bisogno: «Mother won’t you open your arms and / Forgive me for all these bad thoughts? / I’m blinded to the faces in the fog / But all the good in me is because of you / It’s true».
Alla nuda e cruda ‘Regret’, riflessione sugli errori commessi in passato e sulle conseguenti ansie per il futuro, segue uno dei brani più interessanti, ‘Bring Me Your Loves’. Chitarra e tastiere perentorie creano una sorta di vortice senza soluzione di continuità all’interno del quale la voce sembra rivelare una forte angoscia. Ed è probabilmente così, dal momento che si parla della morbosità di un rapporto amoroso che dalla completa possessione vicendevole delle due parti e dalla totale condivisione («Bring me your loves / I wanna love them too you know»), passa alla disperazione dopo un tentativo di separarsi («I took you off your leash / But I can’t, no I can’t, make you heel»), per approdare alla coscienza che, nonostante tutto, «We both have our rabid hearts / Feral from the very start» e cioè che molto spesso l’amore è governato dagli istinti più carnali del nostro essere.
Sin dall’inizio, St. Vincent è stato candidato a diventare uno dei migliori release del 2014 e, bisogna dire, ha tutte le ragioni d’esserlo: iridescente, fresco e denso, ben articolato e mai scontato, unisce con fluidità i punti di comunicazione tra musica e testi, costruiti con la delicata abilità linguistica con cui la Clark ha sempre creato immagini deliziosamente semplici e poetiche. Non è necessario un secondo ascolto per arrendersi all’idea che questo potrebbe effettivamente essere il suo masterpiece – almeno fino ad ora.