Era una tradizione la nostra, ed era popolare, un tempo. Quella della musica impegnata, e non solo politicamente, quella fatta dai cantautori e dalle persone che ascoltavano le loro storie da un disco o seduti a un concerto. Ma le tradizioni, una volta che lo diventano, perdono un po’ di appeal, davanti ai cambiamenti e alle nuove idee che circolano. Non muoiono mai, ma scompaiono un po’, trasmesse in maniera genetica e in eredità discografiche, meno alla luce del sole ma sempre con qualcosa da raccontare, anche se ai grandi palchi nelle piazze piene di persone, si sono sostituiti i piccoli club, salvo alcuni casi, e più nostalgici che ragazzi. Canali più sotterranei, ma è il tempo in cui viviamo e non è necessariamente un male. Capita che proprio la lontananza da quelle luci che ti vogliono fatto e finito, piene di baby star e cadaveri riesumati a fare comparsate, permetta un’evoluzione stilistica e musicale più naturale e, in qualche modo, più genuina, come quel cantautorato di qualche tempo fa, che non raccontava soltanto una storia, ma le storie di tutti. Carta straccia proviene, in qualche modo, da questo ragionamento, così come i Palco Numero Cinque che l’hanno scritto, composto e inciso.
Tradizione, per i Palco Numero Cinque, significa imparare a scrivere e a suonare, e sapere da dove si proviene (non a caso sono stati scelti per il film documentario Paese Mio, racconto della musica d’autore in Emilia Romagna, presentato tra l’altro al Mei). La scrittura, dei testi e della musica, è un equilibrio fra più influenze, capace di attingere sia dalla cultura popolare che da quella più rock e progressiva. Il sound diventa canale per comprendere il fiume di parole ma, al tempo stesso, diventa sfogo di ciò che le parole non possono esprimere, quella fisicità che solo attraverso i suoni e i movimenti può essere espressa. A bilanciare questo complesso mosaico, che visto separatamente sarebbe poco più di un esercizio poetico, è la voce, che diventa la guida in questo percorso, capace di lasciare il giusto spazio a entrambe le forze che si oppongono in ogni brano. È questo il caso di Punto di vista. Sarebbe naturale, e probabilmente corretto, notare delle somiglianze vocali alla Lucio Dalla, ma sarebbe assolutamente riduttivo nei confronti di un sound diametralmente opposto a quel riferimento. È proprio questo ciò che di più genuino c’è nella loro poetica, capace di raccontare una storia ma, al tempo stesso, creare un’armonia trascinante, più di una semplice canzone pop dal ritornello ripetuto, più di un pestare gli strumenti per nascondere qualcosa. Questa molteplicità di riferimenti, che è impossibile definire emulazione, è un difficile processo di appropriazione di tutto ciò che c’è stato per farlo proprio e poter raccontare, così, quello che c’è. Si assiste spesso alle innovazioni come totali rotture, in questo caso Carta Straccia diventa un continuum lungo un percorso che sembrava perduto, personale e sicuro dei propri mezzi.
Tra i tanti aspetti positivi c’è quello della coerenza con cui si sviluppa l’album, che non diventa un campionario di musicalità differenti solo per mostrare le proprie capacità di interpretazione e utilizzo degli strumenti, ma un vero e proprio racconto fatto per essere compreso da tutti. Carta straccia diventa così un disco di quella musica che non sappiamo più ascoltare, perché nella complessità delle sue armonie riesce a trovare la semplicità di quello che la musica dovrebbe sempre lasciare a chi la ascolta, la voglia di continuare a scoprirsi partendo da ciò che si è e da quello da cui si proviene.