Cosa hanno voluto raccontare i fratelli Coen con Inside Llewyn Davis? Sembra più una commedia senza importanza, costellata da una galleria di personaggi assurdi, piuttosto che la storia del Greenwich Village alle porte dell’esplosione della musica folk e di quel talento rivoluzionario che fu Zimmerman, in arte Bob Dylan; è più simile a un appunto di cinematografia che registra a presa diretta vecchi pezzi della tradizione folk americana, il film dei Coen. Una lezione di stile, di colori della pellicola, di originalità di sceneggiatura. Ma cosa resta del film e delle sue aspettative? I personaggi sono abbozzati, non riescono – i Coen – a scendere nelle viscere dei protagonisti, nei loro travagli esistenziali: la storia corre in superficie e sembra non raccontare mai la verità. A proposito di Davis (questo il titolo scelto in Italia dall’Associazione Traduzione dei Titoli per italiani che vivono nel 2014 e guardano ancora i film doppiati) è un raccoglitore di frammenti. Di Llewyn Davis non sapremo niente o quasi, non si capisce se ha talento o è solo sfortunato, come vogliono farci credere. Nelle intenzioni dei Coen c’era il racconto di un cantautore che per pura casualità non riesce ad emergere e a raggiungere il successo, ispirato alla figura di Dave Van Rock, di cui poco ci si ricorda a parte l’arrangiamento di House of the Rising Sun che rese famoso Eric Bourdon con i The Animals.
Il punto è: davvero Dave Van Rock non emerse nello scenario del Greenwich Village dei ’60 per una pura casualità? Bisogna essere abbastanza onesti da ribadire che Bob Dylan aveva una marcia in più all’epoca, e che fu il vero rivoluzionario di quel tempo. Con quella voce mai sentita prima, i suoi testi che erano animati da una vera e proprio rivolta linguistica, l’urgenza di un grande bestemmiatore menestrello di verità, la chitarra che riusciva a creare il ritmo giusto per delle melodie che poi sono rimaste nella storia, bisogna avere l’onestà di ribadire che Dylan era così più grande degli altri che avrebbe naturalmente fatto fuori tutte le anime disperate e perdute della New York dell’epoca. Non è stata dunque una questione di sfortuna che ha condannato Van Rock (e la sua trasposizione cinematografica Davis) al dimenticatoio sociale, ma semplicemente delle grandezze diverse. Per quanto Van Rock fosse fisicamente molto più grosso dell’esile folletto Dylan, era certamente meno bravo. Ed è per questo che The Freewheelin’ è ancora oggi un classico ricercatissimo, che contiene capolavori assoluti della tradizione folk americana come Don’t think twice, It’s alright e Master of war (per non parlare di Blowin’ in the wind), e che Inside Dave Van Rock (tra l’altro disco uscito nel ’64, un anno dopo The Freewhellin’) non ha mai avuto la stessa portata sulla storia della musica.
Ci si ricorderà del film per qualche battuta, come quella del ”fratello scemo di Re Mida”, ma anche le quotes passeranno via in fretta. Resteranno tanti interrogativi, come quello del perché la storia è diventata man mano sempre più inconcludente e senza delle ragioni profonde. Davis va in giro con un gatto randagio, ma sembra quasi non accorgersene, sembra non esserne nemmeno consapevole del perché. Tutte le sequenze sono staccate le une dalle altre, i personaggi non si incontrano, non si capisce nemmeno cosa fanno e perché lo fanno. Non c’è una vera storia. Resta qualche canzone, mandata avanti a memoria, senza un’urgenza. Quando arriva il vero protagonista in scena (ed è un unico frammento della pellicola), sullo sfondo del locale di New York dove ognuno prova ad emergere disperatamente senza riuscirci, ti accorgi della differenza: c’è qualcosa di urgente in quello che ha da raccontare Bob Dylan. Tutto il resto è un riempitivo.
Scusa eh ma se metti pure la copertina del disco non puoi poi scrivere per tutto l’articolo ‘van rock’. E’ van ronk, cristosanto.