Su queste pagine abbiamo spesso cercato di osservare il rapporto confuso della musica (soprattutto indie-rock) all’interno di alcune realtà che sono diffidenti verso la libertà espressiva e artistica, e in che modo le band cerchino di sopravvivere alle leggi che in un certo senso mettono al bando una certa libertà di espressione musicale, o attitudine. Come dimenticare quando nell’Iran della rivoluzione versione ayatollah del 1979 si sia finito per rendere illegali i dischi occidentali. O i mille modi in cui in Siria sopravvivano tracce di musica underground, dopotutto e nonostante le difficoltà del caso.
La storia degli Yellow Dogs è emblematica in questo senso. Si tratta di quattro musicisti iraniani, quasi del tutto sconosciuti fino al 2009, quando un film indipendente decide di portare alla luce la musica underground in Iran: per chi vuole suonare un certo tipo di musica l’Iran non è certo il paese giusto (il punk e il rock sono definiti satanici), così i quattro fanno i bagagli e volano verso New York. Scappano aall’Iran, ma ritrovano una parte d’Iran anche all’estero: nel caso parliamo di Ali Akbar Mohammed Rafie, giovane musicista di un’altra giovane band, che per ”spirito di rivalità” (?), uccide due membri della band (e un loro amico, musicista anche lui) e poi si toglie la vita. Una strage.
Ricordiamo le parole del leader degli Yellow Dogs, che ai tempi di lasciare l’Iran disse: ”Se sei un artista e ti dicono che non puoi mostrare i tuoi quadri, e allora dovrai chiuderli dentro uno stanzino nascosto della tua cazzo, che cazzo di ragione avrai per dipingere?! Un musicista vuole suonare nei concerti!”. Ascoltiamola un poco questa musica così malvoluta: in fondo non era niente di satanico.