Immaginate di poter tornare indietro nel tempo in qualsiasi situazione, alterando piccole e grandi sfumature del vostro passato e che siate i depositari di un segreto di famiglia che si tramanda da generazioni.
Se l’avete sempre desiderato, questa è la storia che fa per voi, quella di Tim – come non invidiarlo – un giovane inglese lentigginoso e dai capelli fulvi (interpretato da Domhnall Gleeson, meglio conosciuto come Bill Weasley in Harry Potter e i Doni della Morte) che al compimento dei ventun’anni viene a conoscenza dal padre dell’incredibile potere che ha accompagnato ogni discendente maschio dei Lake e saprà cambiare anche la sua vita. in qualsiasi situazione, alterando piccole e grandi sfumature del vostro passato e che siate i depositari di un segreto di famiglia che si tramanda da generazioni.
Da imbranato ragazzotto della Cornovaglia, sfida la sorte e parte per Londra, dove si reca per terminare i suoi studi da avvocato, ma anche per lanciarsi in qualche avventura amorosa. Tim non è un Don Giovanni, non sa farci con le donne, ma grazie alla sua nuova fantastica dote gli basta nascondersi in una stanza o in un armadio buio, stringere i pugni e pensare intensamente all’istante preciso che vuole rivivere da capo.
E così incontra Mary (la bella Rachel McAdams di Le pagine della nostra vita) e se ne innamora follemente, ma a causa dei suoi viaggi a ritroso nel tempo per aiutare il coinquilino regista di teatro a superare il giudizio della critica, rischia di perderla. Tim è determinato a ritrovarla e dopo alcuni tentativi riesce addirittura a conquistarla.
Le passeggiate su e giù nel tempo di Tim diventano un rituale per spezzare la monotonia e per contrastare le insidie del quotidiano e pian piano si renderà conto che quest’assurda capacità potrebbe essere messa al servizio per aiutare i propri cari, cambiando così il loro destino, ma senza determinare fino in fondo le scelte personali.
Richard Curtis, regista e sceneggiatore pluripremiato e conosciuto soprattutto per Love Actually, Quattro Matrimoni e un Funerale e Nothing Hill, si è questa volta cimentato in un’opera meno classica del solito, decide di osare con una commedia pur sempre leggera, ma dai risvolti filosofici, attingendo ad un repertorio che ricorre ad espedienti narrativi efficaci, aiutato dal lirismo di una fotografia che imprime forti gradazioni cromatiche in grado di coinvolgere il pubblico in prima persona, voyeur eccezionale e coprotagonista.
Il rapporto padre-figlio, messo in evidenza dal regista, è il tema chiave del film che collegano l’inizio e la fine della vicenda: non si tratta di un rapporto complicato, ma di una neverending story of love, piena di affetto, nutrita da gesti semplici e spontanei, dalle chiacchierate nello studio, da partite a ping pong e da infinite rievocazioni letterarie. L’interpretazione sempre composta e mai fuori dalle righe di Bill Nighy aiuta e fa il resto. Non solo una romantic comedy.
La conquista della felicità avviene attraverso un percorso creato da piccoli tasselli che vanno ad aggiungersi l’uno sull’altro così come in un Lego immaginario e grazie a diversi input Tim e gli altri personaggi insieme a lui imparano ad apprezzare pregi e difetti dei momenti più autentici della vita. Gli intrecci narrativi dell’episodio vanno di pari passo con una comicità elegante e leggera, mai forzata, sempre molto fine, mentre i risvolti più drammatici vengono affrontati in modo da toccare le corde giuste dell’animo.
I dialoghi sempre ragionati sanno colpire per la loro semplicità, così come i personaggi secondari, la dolce Kit Kat, dallo spirito libero, ma tormentato, la svampitezza dello Zio Desmond e la falsa compostezza della madre di Tim che si nasconde dietro un cinismo dilagante. Il tutto condito da una colonna sonora variegata, ma ben pensata che va dai Cure ad Amy Winehouse, passando per il pop inglese, con le Sugababes che Curtis riesce sempre ad infilare nei suoi film, fino a Nick Cave e al nostrano Jimmy Fontana.
Questa lieve punta agrodolce, velata dalla più deliziosa nostalgia, senza mai sfociare nella più bieca zuccherosità, rappresenta in realtà una metafora esistenziale. Incollati alle sedie del cinema tra un bacio e qualche lacrimuccia, Questione di Tempo (About Time) lascia un sorriso stampato sul volto e scatena contemporaneamente un vortice profondo di emozioni. Mai scontato.