Viviamo in una particolare congiuntura dove la considerazione per la scrittura ha raggiunto il suo minimo storico, siamo i figli della libertà digitale incontrollata, e al primo accenno all’impubblicabile si grida piuttosto alla censura. Ci sarebbe da stabilire che cosa è pubblicabile e cosa non lo è, e chi lo decide, sbagliando o meno. Ma tutto ruota attorno a una questione più fondamentale, dal sapore più metafisico, che cos’è la scrittura, cosa sono le parole, di che stiamo parlando quando ci confrontiamo con letteratura e poesia?
Anzitutto è andata perduta la sacralità della parola, poi è crollato un intero sistema, lo scrittore si è mescolato allo scrivano, lo scrivano allo scribacchino, e via dicendo, la poesia non ha più alcun contatto con la sensazione primordiale e carnale del rapimento mistico che si trasforma in parola, e la letteratura assomiglia più a una caterva di racconti non-sense (‘’il racconto è un romanzo di un pigro’’ diceva Tabucchi). A un livello più profondo ancora si è smesso di leggere, e uno scrittore che non si ciba di parole non può pretendere di saper gettarsi anima e corpo nell’impresa tormentosa di scrivere. Ah, non facciamo dannate generalizzazioni – ci sono anche fervidi lettori tra gli aspiranti scrittori postmoderni, e tuttavia bisogna pure fare i conti con quello che si legge, ovvero tentare un distinguo tra ciò che è autentica letteratura e ciò che non lo è, e pretende di imitarla. Non ci sorprenda poi che un giovane narratore del ventunesimo non riesca ad avere la profondità di Checov ed Edgar Allan Poe quando scrive un racconto. Non ci sorprenda perché, primo non ha mai neanche pensato di leggerli, di misurarsi con loro; secondo perché non ha mai fatto sua la lezione di Paul Auster: ‘’Fare lo scrittore non è una scelta di carriera, come fare il medico o il poliziotto. Più che sceglierlo, ne vieni scelto, e una volta constatato che non sei adatto a fare nient’altro, ti devi preparare a percorrere per il resto della vita una strada lunga e difficile. A meno di scoprirsi un favorito degli dei (e peste colga chi vi fa affidamento), il tuo lavoro non ti procurerà mai abbastanza per mantenerti, e se ci tieni ad avere un tetto sopra la testa e a non morir di fame, è meglio che ti rassegni, per pagare conti e bollette, a fare un altro lavoro. Lo capivo, ero preparato, non avevo rimostranze. In questo senso, ero enormemente fortunato.’’ Questo spunto ci offre l’occasione di riflettere sul perché la letteratura sta morendo dissanguata e nessuno si operi per salvarla.
1. Il punto. Il punto ha creato i nuovi mostri della scrittura, ovvero ha aperto a chiunque la possibilità di scrivere i pensierini delle elementari. E’ facile scrivere coi punti. Dinamico. Pensi a rate. Coi punti. Inserisci parole assatananti. Tormento. Sangue. Erezione. Ci dispiace che siamo tornati a usare i punti, James Joyce, in verità non immaginavamo mica di arretrare andando avanti, ma lo dice pure Pasolini insomma, il progresso non è sempre una cosa buona, può essere un regresso, cazzo, e in quanto a questioni stilistiche di lingua stiamo regredendo all’interruzione, al singhiozzo di versi, cose che neanche i babilonesi coi cuneiformi sulle loro fottute tavolette d’argilla, hanno ammazzato lo stream of consciousness per creare altari al pensiero breve, in fondo tutto l’esistenzialismo è stata una gran balla mr Sartre, avrebbe dovuto smettere di pensare e guardare più quella scatola infame che è la televisione, ma quale Parigi, ma quale Cafè Cluny, ma quale filosofia mr Sartre, vada a raccogliere pensieri brevi nei supermarket di paese, e ci metta la punteggiatura sulla sua nausea, la virgola è superflua come il sole di mezzogiorno per un insonne, gloria al punto. Nei secoli. Dei secoli. A. Men. Lo scrittore a singhiozzo è uno dei peggiori attentatori della letteratura.
2. Il carrierismo. E’ il punto affrontato da Paul Auster, legato a quel vago tormento che deve prendere uno scrittore, a quella che lui chiama addirittura una vocazione letteraria o poetica. L’autentico scrittore considera la sua vocazione come una maledizione, alla stregua di una brutta malattia che la sorte gli ha destinato, basti pensare a quella poesia di Baudelaire dove la nascita del Poeta (non quella particolare di Charles, ma quella del poeta universale) è vissuta dalla madre come una tragedia inumana, ‘’perché non ho partorito un groviglio di vipere piuttosto?’’ – è l’invocazione della madre a qualche insperata divinità, eppure il bambino poeta ‘’gioca col vento, discorre con la nuvola, s’ubbriaca’’, e cresce finchè non incontra la moglie che è grata dell’adorazione con la quale si narra di lei, eppure è turpe e finisce per gettare il cuore del poeta in pasto agli animali peggiori. E tuttavia il Poeta di Baudelaire si crogiola in questa maledizione, s’inebria della sua malasorte, e vive questo furore estatico. Quanti di questi poeti (e scrittori) esistono oggi?quanti ne leggiamo di contemporanei complessi che scaraventano il loro travaglio sulla carta?quanti vivono questa vocazione a cui non si sfugge? E quanti invece scrivono per trovare il tetto, e la casa, e l’assegno, e la vanità ricoperta di carta straccia. Eccola lì, Virginia Woolf si carica di pietre le tasche e si getta nel fiume per sfuggire alla maledizione letteraria, Rimbaud parte per l’Africa e muore giovane, Franz Kafka non sa neanche chi è diventato, Jack Kerouac si lamenta nei suoi diari di gioventù per tutti gli scrittoracci che ci sono in giro e parte alla volta dell’America per cercare la sua storia, quella che gli freme dal sottosuolo, e la trova porca puttana, vi è servita sulle ginocchia mentre reggete i vostri bicchieri di vetro. Riuscite a sentire questo strazio nei vostri più profondi modi di sentire, e la priorità della vita su tutto? Per ogni creazione ci vuole buon gusto e buon sentire, per scrivere l’Urlo anche il più avanguardista dei beaters ha dovuto leggere Majakovskij, Walt Withman e Garcia Lorca. Poi è esploso il talento incontrovertibile di Allen Ginsberg. Siete pronti a rischiare di morire di fame per l’urlo?
3. Print on demand, cricche editoriali, globalizzazione e rete internet. Ovvero come la parola ha perso a poco poco il suo fascino, come è stata profanata dal merchandising. Vi capiterà di tanto in tanto di trovarvi a qualche presentazione di nuove uscite. In generale ogni nuova uscita è una fregatura a meno che non stiamo comprando Philip Roth o Franzen, tuttavia considerando il sovrapprezzo d’uscita che nel corso di un anno o due scenderà naturalmente, possiamo anche permetterci il lusso di pazientare comperando qualche classico d’occasione (soluzione alternativa è la lettura in libreria). Dicevamo, le presentazioni dei contemporanei. Teniamo pure da parte gli show fraudolenti di Isabella Santacroce che neanche Malevich sarebbe capace di rappresentare per astratto, e tentiamo di scovare le ragioni morali ed estetiche delle cricche editoriali. Ebbene, non esiste nient’altro che il puro elogio partizan dell’editore al suo autore giustificato da un tornaconto economico. Ci sono le storie in voga, e dunque l’editore vi chiederà di scrivere proprio quelle storie, e poi c’è l’editing che colpisce chiunque, anche Piperno e Saviano, che costringerà le parole all’interno delle logiche editoriali. L’editore dice ‘’scrivi questo’’ e lo scrittore si piega a quella storia, tenta di tirare fuori lo straordinario dal convenzionale. La maggior parte delle nuove uscite assecondano un gusto che è perfettamente creato su misura per i lettori, dove l’ispirazione e la maledizione di cui si parlava poc’anzi non hanno posto. E’ l’editoria che domanda, è il sentimento del tempo, ma un sentimento istantaneo, una rappresentazione a tempo determinato, un disagio che ha una fase ascendente. Tutti questi libri diventeranno carta riciclabile a meno che non vogliate conservarli in casa per tenere dritta la gamba rotta del tavolo. Peggio ancora se parliamo del print on demand. Che poi è anche il peggior sistema con cui alcune case editrici fanno cassa: vuoi stampare il tuo romanzo?pagaci e lo avrai, tutto per te in tot copie da distribuire e vendere ai tuoi amici e conoscenti. Ora, un qualunque imbranato che abbia rispetto per se stesso e per quello che fa non cadrebbe mai in questo gioco che si ciba di pura vanità – e tuttavia succede, si pagano e fanno sopravvivere case editrici fantasma col sistema del print on demand o del falso concorso letterario e poetico, ci si auto-compra, ci si auto-legge, e siamo alla grande masturbazione letteraria. – Hey John, ho qui per te il libro che ho pubblicato con la casa editrice XZY, dai compramene una copia, sto cercando di rifilare in giro questo capolavoro ma nessuno lo vuole, chissà perché! – E’ perché parli troppo di melograni Lou! Non te l’ha detto nessuno che dovresti scrivere di delitti e drammi sociali? Cazzo, l’ultimo di Gilles lo vende l’edicola del Marione, vallo a leggere quello lì, c’è una donna con una gamba sola che piange per il suo amore ucciso in un apparente incidente d’auto! – Eh John, quindi se inserisco uno psicopatico che dopo aver mangiato melograni viene rapito da un’insana voglia di uccidere tedesche secondo te me lo compra qualcuno? – Eh certo Lou! Cazzo è una storia fantastica, ma non dimenticarti lo stile, devi mettere più punti tra una frase e l’altra!
(Parentesi. E’ così che sono stati ammazzati storie e personaggi. Prendiamo il caso di Marcel Proust che nel mezzo del cammin di nostra vita inizia a scrivere La Recherche in sette – sette! – volumi. Immaginiamo il signor Proust andare dall’editore XZY, ‘’no caro oggi i romanzi lunghi non si portano, devi tenerti sulle 150 cartelle!’’, ‘’ma guardi io non sto mica scrivendo in base a un programma, mi sono venuti sette volumi insomma, c’è un filo del discorso, è una lunga ricerca interiore, insomma ogni parola lì dentro ha un senso’’, ‘’guarda, anche avessi scritto Guerra e Pace o La Recherche di Proust, non posso pubblicare più di 150 cartelle oggi, sarebbe da pazzi!’’. E così il signor Proust torna a casa, mangia una madelaine e pensa, ma chi cazzo me l’ha fatto fare di scrivere tutto questo giro di parole esistenzialista sulla madelaine quando potevo parafrasare così: ‘’Il profumo di una madelaine. L’infanzia’’.)
Ancora. L’ambiente letterario fa veramente schifo, provocherebbe la nausea dei migliori parigini degli anni Venti del Novecento. I corsi di scrittura creativa, anzitutto: l’illusione che per diventare uno scrittore ci voglia l’accademia della scrittura è quella che ci farà vendere i peggiori libri che bombarderanno la letteratura e la poesia del secolo ventuno. Seguite l’esempio di Garcia Lorca, vivete, cantate, ubriacatevi. Bisogna essere dei maledetti vitalisti per scrivere la letteratura di razza. L’ambiente letterario e poetico invece è impantanato da due mali atavici e perversi: accademismo e dilettantismo. Della passione ardente se ne riesce a fare a meno in questa solfa tremenda, del fremito violento che ti può rapire in qualsiasi momento sotto forma di ispirazione se ne fa volentieri a meno nelle cricche editoriali, figuriamoci come sta messo l’inquietante mondo del print on demand, e quali sceneggiature verranno fuori dalle scuole di cinema, e quali mostruosi libri dai corsi di scrittura creativa (?). Dunque: l’ambiente letterario fa schifo. Credete che sappiano chi è Rembrandt o Pollock, e che si animino di fronte a una jam session?credete che abbiano mai sentito parlare del dialogo tra le arti, delle notti di sesso tra Anais Nin e gli scrittori i pittori e persino gli psichiatri, dell’amicizia tra Dalì e Lorca, dell’amore tra la Sontang e Annie Leibovitz? No, lo scrittore in erba postmoderno è auto-refenziale, ama il circoletto di Pickwick in cui riesce a non sentirsi un ritardato. Cortazar sentiva il jazz, Bolano i Doors, e Paul Auster parlava dell’importanza del ritmo musicale nelle parole, e Garcia Lorca suonava la chitarra, perché la poesia è anche ritmo, orecchio, musica, bocca. Bisognerebbe dirlo ai vari poetastri sui loro blog che le parole hanno anche una tribalità ritmica, una musica, un’intuizione, e il lettore va posseduto da questo ritmo come se danzasse. Purtroppo le parole sono cambiate.
E’ successo tutto a un tratto, mentre avanzavamo nel nuovo millennio. La scrittura ha perduto la sua carnalità, e si è ammuffita in soffitta: sono entrati i personaggi da copertina nella letteratura, i nostri miti globali, tutta la serie di cazzate che ci circondano, la logica del mi piace, i social newtwork, le marche storiche, l’intero spettacolo del trash ha invaso la poesia, e l’immaginario letterario si è popolato di superfluo, come i romanzi rosa dell’Ottocento.
4. L’emigrazione del poeta. Dagli anni ’50 in poi si è assistito a un particolare fenomeno, ovvero il poeta è fuggito dal suo mondo di inchiostro e carte e si è rifugiato nella musica. Parliamo qui di cantautori in special modo ma non esclusivamente, e andiamo a memoria citando Zimmerman, Leonard Cohen, De Andrè, e anche Jim Morrison che senza incontrare Mazareck sarebbe probabilmente finito per diventare un poeta americano, e via discorrendo. E’ chiaro, la tentazione di avere un pubblico più ampio di quello che riserverebbe la carta straccia coglierebbe chiunque, e in un certo momento il poeta ha avuto l’occasione di declamare la sua poesia a una moltitudine di persone, di cantarla, di far sentire la musica e il ritmo delle parole. Di questa violenta emorragia il circoletto Pickwick se n’è accorto ben poco o niente, e ha preferito rintanarsi nella lettura dei poetastri analogico-digitali. I poeti scappavano, e nessuno li rincorreva per il colletto con la domanda, ‘’hey Bob, perché non pubblichi un’antologia di poesie con noi?’’.
A questo punto rimangono aperte delle questioni per il futuro della letteratura e della poesia, ovvero come potrà sopravvivere, o per riprendere il discorso del nostro conterraneo Eugenio Montale a Stoccolma ‘’E’ ancora possibile la poesia?’’. Per scrivere poesia bisogna partire da una grande verità che ci presenta proprio Montale: è un prodotto assolutamente inutile. Non c’è nessuna serietà nelle parole, il mondo non cambierà. ‘’La poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche’’ – aggiunge l’Eugenio nazionale. La poesia è qualcosa di mobile, che vaga di bocca in strade attraverso le parole. E ovviamente bisogna tener conto di un’altra questione: ‘’un poeta è un fingitore’’ ma deve restare sincero a se stesso, a quello che sente, altrimenti scriverà merda. E’ inutile fingere di non sapere che anche nelle storie più assurde e surrealiste si nasconde l’autore, che l’insetto è Kafka, che Kafka è un insetto! L’altro trucco è vivere la contemporaneità, cercare di comprenderla per quanto si può, ammazzarcisi dentro, aprirsi curiosi agli stimoli, e pensare che la vita, quella sì! viene prima della poesia.