Se c’è una caratteristica di cui la produzione musicale italiana contemporanea risulta sempre più povera, è sicuramente l’urgenza di raccontare qualcosa. È probabilmente questo il vero punto di forza che da quasi 20 anni contraddistingue i Massimo Volume. Mai una parola o nota all’interno delle loro canzoni appare superflua, tutto è perfettamente equilibrato, razionalmente ed emotivamente parlando.
Ci sono due modi per ascoltare un disco della band bolognese: il primo è leggerne semplicemente i testi, quasi sempre rilasciati in anteprima, il secondo è lasciarsi stupire da come le strutture musicali che ospitano le liriche di Emidio Clementi non risultino mai un semplice accompagnamento, ma riescano ogni volta ad enfatizzare ed arricchire di significati ogni sillaba sussurrata, pronunciata o urlata. È un po’ come se la musica rappresentasse la chiave di lettura delle parole, il mezzo attraverso cui fruirne.
Aspettando i barbari arriva tre anni dopo Cattive Abitudini, quel ritorno così perfetto in cui nessuno più sperava. Dal suo predecessore eredita la maturità artistica e la tematica dello scorrere del tempo, lascia però da parte il suono analogico favorendo soluzioni più decise ed elettriche, con una buona dose di incursioni elettroniche. Il senso dell’album sembra tutto racchiuso nel quadro di Ryan Mendoza messo in copertina. Due sorelle si abbracciano all’interno di una stanza: la prima, insicura, si lascia andare nelle braccia dell’altra, che con gli occhi aperti, manifesta una maggiore forza e prova a trasmetterle sicurezza. E’ una scena intima, come intime sono le storie che Emidio racconta nelle dieci canzoni, è un’immagine che evoca attesa, inquietudine per il tempo che passa, la vita che scorre fuori dalla stanza che le ospita. E’ una richiesta di aiuto in un momento di spavento per il futuro, è esattamente la sensazione che si percepisce nel disco, fin da quell’incipit meraviglioso, servito su un tappeto elettronico di grande effetto: Vince chi resiste alla nausea / chi perde meno /chi non ha da perdere, le parole di Dio delle zecche, prese in prestito da Danilo Dolci sono come dardi che ci inchiodano al muro, che ci lasciano soli con la nostra coscienza, a immedesimarci nel noi del testo. Aspettando i barbari è un affresco collettivo ricco di rapporti umani (quello materno descritto ne La cena ad esempio), e di personaggi che, come sempre, affollano l’immaginario di Clementi: alcuni celebri, altri no, ma non per questo meno importanti, anzi. C’è Vic Chesnutt che viene ricordato nei gesti compulsivi, evocati nella corrosiva e omonima canzone, ci sono i protagonisti di La notte, così diversi tra di loro, eppure così accomunati da un senso di inquietudine e smarrimento, c’è l’omaggio alla memoria di Richard Buckminster Fuller, architetto americano a cui è dedicata la meravigliosa Dymaxion song, e poi c’è un pezzo della vita di Silvia Camagni, raccontato in uno di quei brani che quando li senti non puoi non avvertire quel brivido dietro la schiena che si chiama emozione.
Musicalmente le chitarre la fanno da padrone, ma ogni strumento fa il suo gioco, con la giusta densità, con la sensibilità di saper affondare solo quando ce n’è bisogno, quel modo inconfondibile di seguire la narrazione letteraria fino ad arrivare al climax, per poi esplodere come in un orgasmo, come accade nella titletrack: delicata, drammatica e sferzante. Ma la musica sa anche graffiare da subito nel noise ebbro de Il nemico avanza o nella cupezza martellante di Compound. Bellissima la conclusione dell’album, con Emidio che si inchina davanti a tutti i volti e i luoghi della sua San Benedetto. I Massimo Volume hanno scritto un altro dei loro dischi più belli, sono riusciti ancora una volta ad unire la letteratura al rock, senza mai correre il rischio di apparire forzati.
Bisogna sfogliarle tutte le pagine di questo libro, bisogna farlo più di una volta, in diversi momenti del giorno e della vita, perchè i grandi romanzi vanno affrontati da diverse prospettive, per carpirne appieno il contenuto, per coglierne tutti i significati nascosti.
Bisogna arrivare all’ultima pagina per poi chiuderlo e restare distesi ancora qualche minuto, a masticare la sensazione che un nuovo disco dei Massimo Volume riesce sempre, inevitabilmente, a farci sentire un po’ più nudi, ad ogni ascolto.
La Tempesta, 2013