Chi ha voluto affibbiare etichette ad un film come Tomboy non ha perso tempo e ha cavalcato battaglie pro e contro una storia che non aveva nessuna intenzione di catechizzare o imporre tesi sociali sulla sessualità degli esseri umani. La regista francese Celine Sciamma, di origini italiane, ha girato una pellicola sulla fine dell’infanzia, prendendo spunto da una piccola grande bugia di una bambina che si finge maschio con il gruppo di nuovi amici del paese in cui si è dovuta trasferire con la famiglia. La delicatezza, la sensibilità, e la profonda semplicità della narrazione rendono Tomboy (in gergo inglese significa “maschiaccio”) un’opera poco convenzionale sul mondo dei bambini anche perché si racconta senza esasperazione il tema dell’identità sessuale che per scherzo, per opportunismo o magari per inconscia necessità irrompe nella vita della protagonista Laure portandola a vivere un’esperienza in cui emozioni contrastanti di gioia, delusione, vergogna, rabbia e profondo affetto segneranno emblematicamente la fine della sua infanzia. Non aspettatevi nulla di crudo o sconvolgente da questo film, non ci sono scene scandalose o immagini che possono turbare la suscettibilità di qualcuno: Tomboy è una bellissima storia che non analizza o moralizza e di certo non pretende di spiegare dove e quando nasce l’omosessualità in una persona, anzi non parla affatto dell’omosessualità come ha voluto precisare la regista, e la scena finale lascia spazio ad ogni tipo di interpretazione sul futuro della protagonista. Scritto in tre settimane, girato in venti giorni con 500mila euro e senza attori famosi, il film della Sciamma, venduto in tutto il mondo dopo aver sorpreso ai Festival di Berlino e Torino, è una significativa dimostrazione di cinema innovativo e indipendente che può aspirare al successo anche senza effetti speciali e risate popolari.