“Quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima.” Le parole di quel genio di Bruno Munari ci sembrano le più adatte per rispondere agli haters dell’ultim’ora, i contrari a prescindere, quelli che “Mi si nota di più se ne parlo bene o male?” ed optano immancabilmente per la seconda alternativa, soprattutto quando l’oggetto del discorso è l’ultimo fenomeno sulla cresta dell’hype.
Se poi il fenomeno è rappresentato da una band che in brevissimo tempo è riuscita a passare dagli ipod di qualche indiemaniaco ai palchi più prestigiosi del panorama musicale mondiale, per di più riportando in auge un genere che si riteneva già concluso, quello psichedelico, con tutta la sua folta schiera di illustri rappresentanti passati, allora risulta gioco facile indossare i panni dello snob e giudicare dietro la maschera della sufficienza con la scusa del “già sentito”.
Ma la pretesa di un purismo ortodosso del processo creativo, come unica garanzia della qualità del prodotto artistico, è uno sterile onanismo intellettuale che lasciamo volentieri ai vaniloqui degli aspiranti Lester Bangs di turno.
Il 1967 è passato da un pezzo, Milano non è San Francisco e di acido c’è solo la pioggia a smentire qualsiasi pretesa di una Summer of Love di provincia, eppure sul palco del Magnolia per la seconda serata di Unaltrofestival organizzato da Comcerto, i Tame Impala ci trasporteranno in una dimensione spazio temporale degna della migliore tradizione psych.
Ma quella messa in scena dal quartetto australiano guidato da Kevin Parker, in un’ora e mezzo di spettacolo, non è solo un’operazione di mimetismo sonoro che rimescola astutamente forme culturali e stilemi più noti del genere, come nella bellissima Feels Like We Can Only Go Backwards cantata all’unisono dai tantissimi presenti, ma una costruzione di suoni vintage arricchiti da effetti ammalianti e tastiere analogiche plasmate su architetture prog che ridefiniscono il ponte tra vecchio e nuovo psycho pop. Ce ne rendiamo conto con il post-stoner cosmico di Solitude is Bliss, che trascina il pubblico all’interno di cerchi sonori concentrici, in un viaggio che si chiama introspezione, come la traduzione di quell’ “Innerspeaker” da cui è tratto. “There’s a party in my head and no one is invited” canta Kevin, e a guardare gli occhi del pubblico, persi nelle spirali lisergiche disegnate nei visuals e in chissà quali altri mondi, viene da pensare che a tutti sta succedendo lo stesso.
Apocalypse Dream disegna melodie oniriche diluite in suoni liquidi oscillanti come le teste dei presenti, in un viaggio che assomiglia all’interminabile caduta di Alice nella tana del Bianconiglio, e sembra di cadere veramente a testa in giù se dal cielo scende la pioggia ma noi non la sentiamo. Magie dell’altro mondo!
I Tame Impala alternano pezzi vecchi e nuovi dimostrando di possedere la forza centrifuga della jam libera tipica di certe visioni psych, senza però perdere mai di vista l’equilibrio formale di un suono che si irradia e si perde ovunque per poi ritornare nei confini architettonici di una canzone sempre compiuta. E’ forse questo il merito più grande di questa band di ragazzi poco più che ventenni: aver saputo vestire i rituali sonori più psichedelici, lisergici e deliranti con un abito pop, immediatamente fruibile e coinvolgente.
La massiccia Elephant ci sveglia per un po’, con il suo riff saturo e iperclassico, i suoi stop and go, la chitarra spaziale ed i synth acidi, prima di ripiombare nella spirale vorticosa del sogno di Nothing that has happened so far has been anything we could control. Un congedo in gran stile, come un’allucinazione che finisce quando si aprono gli occhi, ma poi dentro continua a succedere qualcosa. Come una bomba che non esplode mai. Come la nebulosa di Orione, non una vera e proprio stella ma una stella in fieri.