Si dice che la felicità sia nell’attesa del desiderio, più che nella realizzazione dello stesso. Perché, in effetti, il rischio di restarne delusi è sempre in agguato, soprattutto se l’attesa dura anni e il desiderio è alimentato da aspettative altissime.
Ieri non solo abbiamo scampato tale pericolo, ma abbiamo anche appurato che a volte un desiderio appagato sa essere di gran lunga più affascinante della fantasia che lo anticipa.
Ancora freschi di Primavera Sound, i Grizzly Bear approdano per l’unica data italiana sul palco di un Alcatraz decisamente troppo vuoto rispetto alle premesse di sold out, ma non per questo meno magico.
Sì, perché quella che si respira, fin dalle prime note, è un’atmosfera dal sapore intimo che mai sarà inficiata dalla perfezione esecutiva, e quindi dal pericolo di distacco emotivo ad essa connessa, con la quale il quartetto di Brooklyn snocciolerà lungo il corso della serata, con la classe che da sempre li contraddistingue, i brani più belli del loro repertorio.
Edward Droste, Daniel Rossen, Chris Taylor e Christopher Bear pescano a piene mani, com’è ovvio che sia, dalla loro ultima fatica discografica, Shields, uscito nel 2012 a marchio Warp, che li ha confermati tra le realtà musicali più solide del momento, dopo quel Veckatimest (2009) che fece gridare al miracolo indie.
I Grizzly Bear suonano divinamente, lo fanno capire subito con i primi brani in scaletta, estratti da quello Shields di cui si diceva. “Speak in Rounds” è il biglietto da visita contenente tutti gli indizi di quello che d’ora in poi sarà: afflato spirituale, accattivanti trame sonore che si dipanano tra arresti e ripartenze di matrice psych-folk, con l’eleganza e il mistero a tenere unito il tutto.
“Sleeping Ute” ammalia il pubblico con il suo sentimentalismo indolente (“If I could find peace/ If this night bleeds/ But I can’t help myself”), ma è con “Yet Again” che accade la vera magia,
le teste cominciano a muoversi, cercando di stare dietro ai controtempi ritmici, alla batteria burrascosa di Rossen e al canto vibrante di Droste.
“Gun-shy” sortisce lo stesso effetto, “Sun in your eyes” cattura la totale attenzione del pubblico, con i suoi vocalismi e le improvvise aperture maestose e solenni sottolineate dalla semplice, ma suggestiva scenografia, con le meduse luminose sullo sfondo blu e le luci a svelare ad intermittenza gli occhi rapiti dei presenti.
Questi i brani di Shields che nella loro esecuzione dal vivo esprimono al meglio tutta la loro forza, così come l’evidenza di una band in cui ogni elemento ha lo stesso peso nel processo creativo, tanto lo strumming di Rossen, o il mai superfluo accompagnamento sintetico che ben si sposa ai rintocchi di Bear, quanto la voce teatrale e profonda di Droste.
In scaletta sono presenti anche alcuni brani di “Yellow House”, tra cui “Knife”, sospesa e resa ancora più eterea della sua versione su album, e “On a Neck, On a Spit”, bellissima nel suo incedere lento e inquieto fino alla chitarra in solitaria che precede l’esplosione finale tra accelerazioni nervose e quel “Each day, spend it with me now” ripetuto ad oltranza.
Tra gli episodi migliori di Veckatimest ci sono sicuramente “Two Weeks” e “Ready, Able”, con i loro arrangiamenti solenni, le stratificazioni sonore e una coralità disciolta in un mood moderatamente acido che sembra racchiudere l’Alcatraz in una bolla di sapone fatta di sole iridescenze armoniche.
“Foreground” conquista definitivamente tutta l’attenzione e il silenzio del pubblico, soave nella sua tristezza sospesa che ci rende tutti presenti a quel momento di rara bellezza eppure immersi in chissà quali altri mondi interiori.
“All we ask” chiude il cerchio magico, disegnato con eleganza ed equilibrio fin qui, in un crescendo sapientemente orchestrato fino al gran finale. “I can’t get out of what I’m into with you” sussurra Droste. Già.
Perché solo adesso ci rendiamo conto dell’incanto di cui siamo felicemente vittime, come se la bellezza fosse un veleno benefico a rilascio graduale. Come se la bellezza fosse una medusa su uno sfondo blu.