Andarsene dall’Italia è sempre stata una possibilità, la crisi economica ha soltanto accelerato il processo, rendendo più difficile immaginare il futuro e svuotando il corpo delle forze necessarie per reagire. La cultura di massa e la politica hanno, nella maggior parte dei casi, fallito e lasciato la società in balia di se stessa e degli individui di cui si è composta, incapaci di reagire al tipo di contenuti di cui si cibano. Solitudine e passività negli occhi di chi non sa più come guardare. Pensare di andarsene è la prima reazione di chi sa di meritarsi qualcosa di più di tutto questo. È sbagliato parlare solo ed esclusivamente di una fuga di cervelli che sono, forse, gli ultimi ad andarsene. Quello che fugge dall’Italia sono anche le mani e i cuori di una generazione che non sa che farsene della propria giovinezza in un paese, come l’Italia, che non sembra interessarsene. È fuorviante credere, però, che sia una soluzione facile o che tutto sia da ricondurre ad una spina dorsale troppo restia ad accontentarsi o a lottare, di chi ha sempre avuto tutto pronto. Il fenomeno del “me ne vado” è, prima di tutto, una questione culturale.
Partire. Non c’è più la necessità di attraversare gli oceani, ammassati come merci in transatlantici arrugginiti, ma lo zaino è riempito delle stessa voglia di riscatto e dalle stesse paure degli anni venti. Chi crede che andarsene sia facile non è mai veramente partito perché saprebbe che in ogni scelta c’è qualcosa che si abbandona e qualcosa che si può trovare. Un lancio nel buio di cui non conosci l’esito ma che devi necessariamente affrontare per te stesso. Alle spalle bisogna lasciarsi i ricordi, la famiglia e la tranquillità del proprio quartiere e, per farlo, servono determinazione e coraggio. Scappare non è mai partire davvero, non si hanno rimpianti dietro di sé ma, solo, un lungo e sofferente passato e i giovani, si sa, non possono avercelo. Chi sceglie di fuggire torna presto o non torna più indietro, chi parte sa che un giorno vorrà ritornare. Si tratta, in entrambi i casi, di una scelta dura e dolorosa ma che, spesso, diventa necessaria. Ad ognuno bisogna concedere questo diritto senza, per forza, doverlo condannare. I traditori sono altri e, ultimamente, sono quelli che dall’Italia non se ne sono ancora andati e contribuiscono tutt’ora a farla affondare. Partire non significa fare il cameriere un mese a Londra o seguire il trend nichilista che ti dice che tutto va male, ma fare una scelta che ti farà perdere tutte le cose che hai guadagnato nella tua giovane vita, significa andare contro gli stereotipi, finire in una cultura totalmente differente e doverne fare i conti, da soli. Crearsi una nuova realtà in un paese che, molto spesso, è poco disposto ad accettarti. Il fatto è che l’Italia ti segna almeno quanto ti rinchiude, e non riesci proprio ad abbandonarla del tutto. Chi parte non è un disilluso ma chi, consapevole di non potersi sentire bene con tutto quello che ha avuto, ha bisogno di qualcosa in più e della sensazione di poter ritornare.
Restare. Non si vive più in Italia, ora si “resiste”. Si resiste al lavoro che non c’è, alle risposte inconcludenti della politica e alla tentazione di andarsene. Anche per restare ci vuole coraggio, non più né meno che per partire. Restare, per un giovane italiano, significa convivere con una società, in gran parte, disordinata e disinteressata, con una classe politica insoddisfacente, con un’economia sanguinante ma significa, soprattutto, fare in modo che chi se ne è andato possa ritornare. Stringere i denti anche per se stessi e riuscire a realizzarsi nel proprio paese, tra tutte le difficoltà. Un atto rivoluzionario che richiede le stesse lacrime di chi guarda dall’aereo il suo paese mentre si allontana, con tutti i sogni e le speranze d’infanzia che lo hanno segnato. Anche rimanere implica rinunce e sforzi, forse maggiori e più comunitari. Non deve voler dire, però, accettare quello che si ha intorno e accontentarsene, non deve voler dire sentirsi migliori di chi non ce l’ha fatta e se n’è andato. Si tratta di raccogliere la bellezza di cui l’Italia è piena ed usarla come arma per combattere tutto quello che ha di sbagliato. Restare è la presa di posizione forte di chi, ancora, non se la sente di abbandonare la speranza. Chi resta non deve essere, per forza, un illuso ma chi vuole spendere gran parte della sua vita nel cambiare quello che gli è stato lasciato.
Restare e partire sono due parole forti che escono da una grande domanda, quella che ti costringe a capire chi sei e cosa vuoi. Non sono due parole che si escludono a vicenda, sono fatte dello stesso coraggio e delle stesse speranze, le stesse di cui la giovinezza si deve cibare per poter creare qualcosa. Si tratta di una questione culturale perché la giovinezza è una bellezza di cui l’Italia non può fare a meno, più dei suoi musei o dei suoi monumenti. Avere una generazione costretta ad emigrare per potersi affermare sarebbe un errore, che nessun paese al mondo si può permettere. È da lì che il cambiamento si avvera. Se la barca sta affondando è necessario che ognuno abbia la possibilità di scegliere se affrontare il mare o la riva che si trova davanti, con la giusta responsabilità. Nessuno tradisce il proprio paese andandosene, nessuno lo celebra rimanendo e lasciandosi contaminare.
Mi hai commosso! Ne stavo parlando proprio oggi con i miei colleghi qui a Ginevra, hai messo su “carta” le mie sensazioni!
“Restare, per un giovane italiano, […] significa, soprattutto, fare in modo che chi se ne è andato possa ritornare.”
Che grossa retorica minchiata. Cosi’ non piaci alle donne Francè!
Ma sono un negativo; il resto va abbastanza bene