Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, recentemente, ha voluto rimarcare la necessità di proseguire senza tentennamenti con le cosiddette politiche di rigore e austerità nell’Eurozona, dato che alcuni Paesi «hanno vissuto in un mondo di favola, sottostimando gli squilibri» di deficit e debito pubblico, oramai divenuti “insostenibili”. Insomma: la BCE «farà tutto il necessario per preservare l’euro», solo nella prospettiva di uno stabile contenimento della spesa pubblica.
Ci sono (almeno) due punti di estremo interesse in queste dichiarazioni di Draghi.
Innanzi tutto, vi è una esplicita ammissione di quanto sia essenziale l’intervento operativo della Banca Centrale per la tenuta della moneta, tenendo bene a mente l’anomalia della sussistenza e persistenza di una moneta unica, in assenza di un unico Stato (ma su questo ritorneremo più avanti).
Non meno importante, però, è l’impatto dogmatico della lettura (parziale) che si continua a dare a questa fase storica: deficit di spesa corrente e debito pubblico sarebbero un male da evitare sempre e comunque e rappresenterebbero, senz’altro, la causa prima di questa crisi economica, apparentemente, senza rapide e indolori vie d’uscita.
E più ancora del principio ― che pure ci sembra ampiamente discutibile, a dire il vero ― è l’applicazione di questo dogma della condanna indiscriminata della spesa pubblica che ci sembra doveroso analizzare: contenimento perenne delle voci di spesa del bilancio pubblico e, conseguentemente, revisione e ridimensionamento degli stessi concetti di Stato sociale e di servizio pubblico universale, oltre che dell’intervento pubblico diretto in economia. Dunque, in sostanza: Stato leggero e primato economico del privato e del mercato; una sorta di uscita “da destra” dalla crisi, se vogliamo dare un minimo di connotazione politica a scelte economiche che sono tutt’altro che neutre e oggettive. Uno slittamento a destra che, però, non va banalmente interpretato come convergenza continentale o mondiale verso un comune sentire, che si traduce in risultati elettorali che premiano, democraticamente, quei progetti politici che perseguono una certa idea di società (più individualista e meno egalitaria) a scapito di un’altra, fondata su opposti valori. Vi è qualcosa di profondamente diverso e di nuovo nella vulgata della fine delle favole che sta accompagnando i progetti di riassetto economico delle nostre società, vessate da questa imponente crisi del modello economico. Vi è, innanzi tutto (e alquanto paradossalmente), il ribaltamento dei fattori di crisi in valori positivi. L’occultamento delle responsabilità che il modello economico e i suoi attori privati hanno avuto nel generare questa crisi e, anzi, sic et simpliciter un sostanzioso rilancio del medesimo modello economico senza significativi correttivi di sorta, come ‘ovvia’ soluzione della crisi che esso stesso ha determinato e prodotto.
La cifra distintiva di quella che potremmo ben definire come una vera e propria restaurazione capitalistica su larga scala, ancora una volta, è espressa magistralmente da Luciano Gallino, nel suo recente “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (testo di cui si raccomanda vivamente la lettura).
In estrema sintesi, secondo il sociologo torinese:
«La caratteristica saliente della lotta di classe nella nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori ― termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti ― sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Questa classe dominante globale esiste in tutti i paesi del mondo, sia pure con differenti proporzioni e peso. Essa ha tra i suoi principali interessi quello di limitare o contrastare lo sviluppo di classi sociali ― quali la classe operaia e le classi medie ― che possano in qualche misura intaccare il suo potere di decidere che cosa convenga fare del capitale che controlla allo scopo di continuare ad accumularlo»
In questo scenario, un ruolo decisivo nell’affermazione di quello che tende a configurarsi come un modello di pensiero unico elitario, che non riesce (ancora?) a incontrare forme diffuse e strutturate di opposizione di massa, è svolto chiaramente dai mezzi di comunicazione tradizionali e non. Televisioni, radio, giornali e persino i portali web dell’informazione mainstream, nell’apparente pluralismo dell’offerta, infatti, sul piano quantitativo veicolano massicce dosi del pensiero dominante, ammantandolo sovente col piglio autorevole del parere tecnico. Strategia di cui in Italia abbiamo avuto diretta esperienza nella fase di governo dell’attuale legislatura, soprattutto nel suo scorcio conclusivo, ma ― seppur in forme differenti ― in realtà tutto il periodo della cosiddetta Seconda Repubblica ne porta ancora i segni, ormai diventati vere e proprie cicatrici.
Se dunque, per dirla con lessico marxiano, «i pensieri della classe dominante sono in ogni epoca i pensieri dominanti», è evidente che quando la classe dominante arriva a possedere strumenti di persuasione potenti e penetranti come mai ve n’erano stati in passato, gli spazi di manovra per provare a opporsi ai «pensieri del loro dominio» si fanno sempre più ristretti.
In prosieguo di discorso proveremo allora a comprendere al meglio a che punto è la crisi: come si è generata e come se ne esce, o, meglio, quali sono gli esiti delle prescrizioni dominanti che, per ora, si sono imposte come indiscutibili vie d’uscita. Cercheremo di capire se è vero e fino a che punto può essere verosimile l’idea che deficit di bilancio e debito pubblico continuamente crescente siano l’inevitabile conseguenza di un mondo che offre diritti e garanzie giuridiche ai lavoratori e avanzati sistemi di Welfare State e, soprattutto, se un elevato stock di debito pubblico accumulato è un problema in sé, o se un qualche rischio di tenuta dei conti si presenta eventualmente, solo al ricorrere di determinate condizioni. Cercheremo insomma di capire se è vero che in Europa si è vissuti per decenni in “mondo di favola”, per usare le parole di Draghi, o se c’è qualcuno che racconta favole e che cerca di trasformare il sogno dell’integrazione europea in un incubo fatto di austerità e vessazioni delle classi lavoratrici. Un incubo del tutto insensato e controproducente, se l’ottica che si vuole perseguire è quella del benessere diffuso.
Sotto questo aspetto, la dolorosa vicenda della Grecia è paradigmatica. Un misto di errori tecnici, di egoismi (non solo) nazionalisti e di ottuso ideologismo ha fatto sì che, nel giro di un paio d’anni, i problemi del Paese si siano drammaticamente aggravati sia nei fondamentali economici, che nella carne viva dei cittadini greci, costretti a fare i conti con scenari di una miseria che l’Europa intera si illudeva di aver definitivamente relegato nella soffitta di un passato che mai più si sarebbe dovuto rivivere.
Vito Lops, sul quotidiano di confindustria, è chiarissimo, in proposito:
«Sono trascorsi più di due anni dal primo salvataggio (110 miliardi) della Grecia orchestrato dall’Eurozona. Da allora, complici previsioni ottimistiche e calcoli errati sul moltiplicatore fiscale (i danni sul Pil ipotizzati, derivanti dalle riforme di austerity, erano stimati con una leva dello 0,5 mentre in realtà il “moltiplicatore dei danni” è risultato superiore a 1) da parte delle autorità europee hanno complicato le cose».
E, più avanti, citando l’economista di AllianceBernstein, Darren Williams, offre alcuni numeri difficilmente equivocabili:
«Il tasso di disoccupazione sarebbe dovuto salire al 15,2% quest’anno e il debito del settore pubblico al 149,7% del Pil nel 2013. I fatti si sono dimostrati ben diversi. Secondo gli ultimi dati, l’economia greca si è contratta dell’11,7% nel 2010 e 2011, e le proiezioni ufficiali suggeriscono che calerà al 9,9% nel 2012 e 2013. Nonostante questo calo, le prime proiezioni per il mercato del lavoro si sono dimostrate troppo ottimistiche: il tasso di disoccupazione ha raggiunto oggi il 25,4% e continua a salire. Naturalmente questo programma ha avuto un forte impatto sia sull’economia che sulla popolazione. Ma ci sono stati dei risultati in termini di miglioramento della sostenibilità del debito? La risposta è negativa. Anziché raggiungere il 149,7% del Pil nel 2013, le ultime proiezioni vedono il debito governativo salire al 191,6% del Pil nel 2014. La natura autodistruttiva del programma greco porta importanti lezioni per gli altri Paesi in difficoltà dell’Eurozona».
Si poteva agire diversamente, dunque? Certo che si poteva! E si doveva farlo, se solo si considera che l’intero PIL della Grecia rappresenta una minuscola frazione ― circa il 2% ― del PIL UE, ragion per cui a fronte di disagi minimi per tutti, un meccanismo di messa in comune dei debiti avrebbe immediatamente rappresentato al capitale speculativo la certezza che l’unione monetaria è anche politica e che non esistono dunque anelli deboli della catena, che possono saltare da un momento all’altro, innescando ulteriori processi depressivi, con conseguenze negative incalcolabili.
Anche qui, quindi, la transizione infinita (e dal carattere incerto) verso una Unione Europea che si costituisca a tutti gli effetti come Stato federale democratico, gioca senz’altro un ruolo decisivo negli sviluppi tutt’altro che risolutivi della vicenda greca.
Ma vi è un di più che non può essere ignorato. Già all’inizio di questo 2012, in Grecia, la percezione degli effetti devastanti delle pretese della cosiddetta troika (UE, FMI e BCE) era talmente forte e diffusa da scatenare violente reazioni di piazza, in presenza di un’ulteriore stretta nel senso dell’austerità. A fronte dei previsti licenziamenti e decurtazioni salariali nel settore pubblico, uniti a diffusi incrementi delle imposte dirette e indirette, il conseguente peggioramento delle condizioni economiche di ampie fasce della popolazione greca era oramai scontato, così come non bisognava avere capacità divinatorie per comprendere che se decine di migliaia di persone perdono il lavoro e altre centinaia (e centinaia) di migliaia di cittadini greci comunque avrebbero avuto minori risorse a disposizione da spendere, il risultato finale sarebbe stato il crollo della domanda interna. Una situazione, tra l’altro, non rimediabile, stante l’impossibilità ― la politica monetaria è di competenza esclusiva della BCE, nell’area euro ― di provare a controbilanciare le perdite interne, con una svalutazione competitiva. E se crolla la domanda interna e non si può nemmeno svalutare per tentare di rilanciare le esportazioni, la conseguenza è inevitabile: avvitamento recessivo e peggioramento ulteriore della situazione economica generale del Paese. Come è poi puntualmente avvenuto.
Ebbene di fronte alle prime perplessità che, anche qui da noi, questa strategia del tutto irragionevole cominciava a destare, i Boldrin di turno, da buoni campioni dell’ideologia dominante, spiegavano che, in sostanza, la Grecia non merita né fiducia, né sconti, né compassione, dato che:
«per più di un decennio ha vissuto su una spesa pubblica impazzita ed in continua crescita, prendendo a prestito da chiunque, per consumare e non per investire, mentre alterava i propri conti per ingannare i creditori»
Gli effetti di queste politiche possono essere ben sintetizzati da queste righe scritte un paio di mesi fa da Ettore Livini:
«La Grecia dà l’ok alla vendita di cibi scaduti per provare a combattere la marea montante della povertà. Il ministero allo Sviluppo, secondo quanto riportano siti on line greci, ha approvato infatti una nuova legge che consentirà ai supermercati di lasciare sugli scaffali a prezzi super-scontati una serie di prodotti anche dopo la data entro cui devono essere “preferibilmente consumati”. Il cibo dovrà essere esposto separato da quello a prezzo pieno e il venditore risponderà del suo buon stato di conservazione. Il costo per il cliente dovrebbe secondo le stime essere pari a un terzo circa del normale. Non è consentito invece l’utilizzo di questa merce all’interno di ristoranti o negli alberghi.
(…) La decisione del governo ellenico conferma la difficile situazione sociale della popolazione greca. La disoccupazione è salita a luglio al 25,1% contro il 17% di un anno fa con quella giovanile (tra i 15 e i 24 anni) arrivata allo stratosferico livello del 54,2%. Un greco su quattro, insomma, è senza lavoro e il 27% dei cittadini vive sotto la soglia della povertà secondo i dati Eurostat. È il frutto della politica di austerity degli ultimi quattro anni che ha portato a un calo del PIL del 22% e a una serie di manovre finanziarie pari a 63 miliardi di euro, pari più o meno al 33% del PIL. Come se l’Italia fosse stata costretta a digerire tagli di bilancio per 600 miliardi circa»
Ma, evidentemente, il popolo greco, la Grecia stessa nella sua interezza ― «un paese dove, sino all’altro giorno, le figlie nubili dei dipendenti pubblici ottenevano uno stipendio dal governo e i barbieri vanno in pensione, pubblica e sussidiata, a 50 anni perché maneggiano sostanze pericolose!», come faceva notare sempre il nostro buon Boldrin ― tutto questo se lo merita. Così come, in base a questa logica, un trattamento del genere se lo meriterebbero anche tutti gli altri Paesi che si rifiutassero di fare i cosiddetti “compiti a casa”, espressione che il tecnico e sobrio Mario Monti ama ripetere spessissimo a beneficio della stampa di mezzo mondo.
E in tutto ciò la cosa più incredibile è quanto, proprio nell’anno in cui l’UE si può fregiare del premio Nobel per la pace, si continui a sottovalutare il rischio che una straordinaria opera di vessazione di larghe fasce di ceti popolari possa tradursi, nel medio periodo, non solo nel tanto temuto e vituperato populismo in chiave anti-europea, ma in un molto più temibile diffuso risveglio di un’ultra-nazionalismo di stampo dichiaratamente nazi-fascista.
Ciò di cui, purtroppo, proprio in Grecia vi è già traccia tangibile, alla luce dell’impressionante successo che un partito violento e pericoloso come Alba Dorata ha avuto nelle ultime elezioni.
Dal sogno dell’Europa dei popoli che si federano in uno Stato del benessere, all’incubo dei fascismi di ritorno, il passo è fin troppo breve, dunque! Soprattutto, quando dall’obiettivo del benessere diffuso si passa a una sorta di logica perversamente punitiva di intere popolazioni, senza nemmeno soffermarsi a ragionare sulle effettive responsabilità di chi avrebbe commesso errori. Perché se c’è una fetta di popolazione che si è arricchita illecitamente a danno dell’economia pubblica, nel momento in cui si assume a fondamento base della politica economica il risanamento del bilancio dello Stato, o si individuano esattamente i responsabili del dissesto e si ripiana il disavanzo (quantomeno al netto degli interessi), rimettendo a posto il maltolto e addebitandolo solo a chi se n’è effettivamente appropriato, o si opera come si è scelto di fare in Grecia: si distrugge un’intera economia e, magari, si permette pure ai veri disonesti di farla franca, pur di non condividere tra tutti gli Stati membri il costo del risanamento, per intero o solo per quella quota che non si riesce a recuperare direttamente da chi ha sbagliato.
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C’ERA UNA VOLTA IL CRESCI ITALIA – Alla luce di quanto abbiamo potuto osservare fin qui, non sembra poi così peregrina, l’idea che il trattamento riservato alla Grecia rappresentasse per qualcuno un ottimo metodo per indurre agevolmente tutti i PIGS ― Portogallo, Italia, Grecia e Spagna; cui si aggiunge anche l’Irlanda nella versione con la doppia “i” dello sgradevole acronimo suino ― ad accettare senza troppe resistenze i diktat del pensiero dominante.
D’altra parte, ormai, vi è un diffuso consenso sull’insensatezza del metodo adoperato, se lo scopo finale è quello di preservare in ogni caso l’unione monetaria, quale garanzia primaria della tenuta e della solidità della moneta stessa e di tutta l’area euro.
Alessandro Leipold, per Il Sole 24 Ore, pur muovendosi sempre fuori dall’ottica dell’assunzione comunitaria del debito greco, traccia un quadro di una chiarezza lampante, sul punto:
«Non si può continuare sulla strada che ha condotto ad una recessione senza precedenti e ad un’allarmante inasprimento del clima sociale, che porterebbe prima o poi proprio alla fuoriuscita che si vuole evitare. Vi è ormai un coro crescente che denuncia i limiti all’aggiustamento in una situazione recessiva. Tra le voci più recenti, vi sono la ricerca (seppur criticata) del FMI sui moltiplicatori fiscali, gli studi della Banca di Francia e del National Institute of Economic and Social Research pubblicati questa settimana, e l’intervento del Premio Nobel per l’economia, Christopher Pissarides, alla British Academy a fine ottobre.
Alla luce di tanti autorevoli interventi e dell’esperienza stessa, vanno riconosciute almeno tre esigenze imprescindibili: l’aggiustamento greco va spalmato su un periodo più lungo (si cominci almeno con due anni in più); l’onere del debito va alleviato non solo, come pare acquisito, con interessi più bassi e scadenze più lunghe, ma anche con una ristrutturazione vera e propria del debito verso i creditori ufficiali; e il financing gap che rimane va colmato con un mix ragionevole di aggiustamento e finanziamento. A questo riguardo, la condizionalità andrebbe circoscritta a quanto è veramente critico da un punto di vista macroeconomico: non può essere (come lo è stata) un albero dei desideri al quale viene appesa ogni misura auspicabile, oltrepassando di gran lunga la capacità attuativa di un Paese dalle istituzioni deboli»
E sostanzialmente l’accordo di due settimane fa, tra Eurogruppo e FMI, per lo sblocco di una nuova tranche di aiuti alla Grecia, si è mosso appunto su queste linee, diciamo così, più accomodanti: «riacquisto da parte della Grecia di una quota dei bond in circolazione, riduzione significativa dei tassi di interesse sui prestiti bilaterali e delle commissioni sui prestiti EFSF; allungamento di 15 anni della durata dei rimborsi e rinvio di 10 anni dei pagamenti degli oneri».
Si poteva dunque agire diversamente. Ma, forse, se fin dall’inizio si fosse cercato di risolvere la crisi greca senza esasperarla, personaggi chiave di questa fase storica come il tuttora in carica ― ancorché dimissionario ― prestigiosissimo Presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Monti, avrebbero dovuto fare uno sforzo maggiore sul piano comunicativo per spiegare le proprie scelte di politica economica. Vuoi mettere la comodità e l’efficacia mediatica di un: meglio pagare più tasse che “finire come la Grecia”?
Qui viene in rilievo il ruolo decisivo di un’informazione mainstream che, purtroppo, continua a essere tutt’altro che indipendente. Infatti, come già segnalavamo, in sede di analisi dei primi cento giorni di operato del nostro governo tecnico, su un problema serio è reale, qual era l’eccessivo aumento degli interessi da pagare sui titoli del debito pubblico nazionale, si è innestata una costruzione mediatica di natura emergenziale, secondo la quale il Paese era ormai “sull’orlo del baratro”: anche il lettore più distratto che, però, un minimo segue le vicende politiche, facendo mente locale, ricorderà bene quante volte, nel corso dell’ultimo anno, i principali media nazionali hanno dato ampio risalto a questa immagine. Come se l’Italia non avesse un PIL che è quasi sei volte quello della Grecia e non fosse la terza economia dell’area euro e una delle economie più floride del pianeta. Come se nel nostro Paese non ci fosse un impressionante problema di ineguale distribuzione di una ricchezza che è comunque ingente (il famigerato 45% circa di ricchezza nazionale complessiva, che si concentra nelle mani del 10% delle famiglie più ricche), anche al netto della enorme quota di economia sommersa (il leggendario tesoretto da 490 miliardi di euro: quasi un terzo del PIL nazionale). Come se il debito pubblico, fosse un problema in quanto tale e non un dato che va sempre analizzato in rapporto a tutti i fondamentali macroeconomici dello Stato indebitato (non ultimi in importanza la scadenza dei crediti e la natura soggettiva dei titolari degli stessi).
Ma se su tutte queste cose possiamo evitare di dilungarci nuovamente, avendole già analizzate a suo tempo, restano invece ancora in sospeso, essendosi dipanati nei mesi successivi alla nostra precedente uscita, gli altri due pilastri dell’azione di questo governo: dopo il Salva Italia, infatti, la macchina di propaganda governativa proponeva il Cresci Italia e la Spending Review (modo esterofilo, quest’ultimo, per definire quella che sostanzialmente è un’operazione di tagli alla spesa pubblica).
Riguardo a quest’ultima, va sottolineato solamente che non si tratta di un’innovazione, ma del proseguimento di un’opera già avviata dai precedenti governi a partire dal 2007. Rispetto al recente passato la differenza consisterebbe nel passaggio dalla logica dei tagli lineari (che, in un periodo successivo, potrebbe rivelarsi addirittura controproducente a causa dei cosiddetti “rimbalzi” di spesa) a quella di tagli mirati.
Come è ovvio, il taglio può effettivamente andare a incidere su costi eccessivi, frutto magari di dinamiche corruttive, così come può andare a ridurre il personale e i servizi erogati.
L’unico taglio che produce effetti positivi è chiaramente quello della prima specie, mentre in prosieguo di analisi si comprenderà perfettamente perché soprattutto le riduzioni di personale andrebbero evitate in una fase recessiva, come quella che sta ancora attraversando il nostro Paese.
Del primo provvedimento, invece, già ci eravamo in parte occupati, quando era ancora, in fieri, sottolineando come ci sembrassero un po’ troppo enfatiche ed ottimistiche le previsioni che si potevano leggere ― «Il decreto legge rinominato dal presidente del Consiglio Monti “Cresci Italia” consentirà nel breve periodo, di traghettare l’economia nazionale fuori dalla spirale recessiva (…)» ― sul sito del Governo italiano.
Fine della recessione nel breve periodo, dunque; crescita a ritmi europei e secondo equità, nel medio periodo, le prospettive di sintesi del programma governativo.
Possiamo incominciare a vedere, ora, cosa ci dicono gli indicatori economici, su questi punti.
Una prima chiarissima sintesi ce la offre Guglielmo Forges Davanzati, su MicroMega di qualche giorno fa:
«Sul piano della politica economica, il bilancio del governo Monti non è particolarmente entusiasmante. Tre dati possono essere sufficienti per attestarlo: circa centomila individui hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, come rilevato nell’ultimo Rapporto ISTAT, con un tasso di disoccupazione giovanile (superiore al 30%) che ha raggiunto, in Italia, il suo massimo storico; è notevolmente aumentato il numero di fallimenti di imprese, con oltre cento crisi industriali in atto; il rapporto debito/PIL è aumentato di 6 punti percentuali nel corso dell’ultimo anno. In altri termini, appare sempre più evidente che ciò che viene definita “crisi” è oggi niente altro che l’inevitabile effetto di politiche fiscali restrittive attuate in un contesto di calo della domanda aggregata; politiche che questo Governo, più del precedente, ha perseguito con la massima tenacia».
Ma possiamo andare un po’ più a fondo e scoprire che il peggioramento del rapporto debito pubblico/PIL è frutto di un doppio dato negativo, se solo si considera che: 1) il prodotto interno lordo, secondo le stime (in dollari) del FMI decresce ancora, di circa 41 miliardi su base annua, riportandoci ai livelli di ricchezza del 2001 e facendo registrare un arretramento del 2,4%, stando ai dati Eurostat; 2) lo stock di debito pubblico accumulato continua a crescere, aggirandosi oggi intorno ai 2000 miliardi (di euro): una crescita media di oltre 8 miliardi al mese, nei primi 10 mesi dell’anno, come facevano recentemente notare Federconsumatori e Abusdef.
Come si sia potuta realizzare questa congiuntura così negativa, lo si capisce immediatamente, leggendo con attenzione questo breve passaggio dell’analisi dell’operato del governo tecnico, uscita poche settimane fa su Sbilanciamoci.info:
«Il rapporto debito/PIL, il parametro che più influenza la vulnerabilità del debito dello Stato, ha superato il 126%, quasi sei punti percentuali in più rispetto all’anno precedente; alla crescita ha contribuito il fabbisogno finanziario dello stato, nei primi nove mesi dell’anno quasi identico a quello dei due anni precedenti, e la diminuzione del prodotto, anche di quello espresso a valori correnti. Malgrado le numerose e pesanti manovre fiscali, tra le quali l’introduzione dell’IMU, l’innalzamento dell’aliquota ordinaria IVA, l’inasprimento delle accise sui carburanti, le maggiori imposte di bollo, oltre al fiscal drag e alle ancora insufficienti misure di contrasto all’evasione, le entrate fiscali sono cresciute in misura limitata; il gettito IVA, a causa del crollo dei consumi, è sceso. Le spese, limitate sul piano interno, hanno risentito degli esborsi ― circa 18 miliardi nei primi nove mesi dell’anno ― che anche l’Italia ha effettuato per finanziare le misure europee di intervento per gli altri paesi europei in difficoltà».
Quest’ultimo dato è particolarmente significativo: si tratta di una parte della quota che l’Italia versa soprattutto per il cosiddetto Fondo salva Stati, oltre che per il Meccanismo europeo di stabilità, suo sostituto.
L’entità delle cifre è considerevole:
«Nel 2012 il governo stima di concedere finanziamenti complessivi in favore di Grecia, Irlanda e Portogallo per 29,5 miliardi che saranno sempre erogati dall’EFSF. In più bisogna conteggiare i versamenti per la sottoscrizione della quota italiana al capitale dell’ESM, (l’European Stability Mechanism), il meccanismo permanente destinato a sostituire il vecchio Fondo salva Stati. Si tratta di circa 5,6 miliardi da versare in due rate»
Per dare immediata contezza di quanto pesi questa voce di spesa sul nostro bilancio, può essere utile raffrontarla con una consistente voce di entrata, la patrimoniale diffusa che il governo tecnico ha messo a carico di tutti i proprietari di immobili, compresi quelli che hanno solo la proprietà dell’abitazione in cui vivono. Ebbene: il gettito IMU 2012, da recenti calcoli, risulta andare anche oltre la stima originariamente prevista di 21 miliardi. E tuttavia nemmeno destinando tutti i 28 miliardi (proventi IMU preventivati + extra-gettito) di questa entrata si riuscirebbero a coprire per intero le suddette spese comunitarie (oltre 35 miliardi di euro, in complesso). Ulteriore effetto collaterale della moneta unica, in assenza di Stato unico.
Ma, assodata la persistenza della fase recessiva e del contemporaneo incremento del debito pubblico, c’è un altro dato che inquieta e preoccupa: il numero complessivo dei disoccupati.
«In soli dieci mesi, tra novembre 2011, data d’insediamento del governo Monti, e settembre 2012, sono aumentati di 416mila unità, passando dai 2 milioni e 359mila di novembre 20011 ai 2milioni e 774mila di settembre 2012»
Un mese dopo, l’Istat registra un ulteriore incremento ci poco meno di centomila unità, per un numero complessivo di disoccupati di 2,87 milioni di persone, cui vanno aggiunti (per una singolare coincidenza) un’analoga cifra in termini di lavoratori precari: giusto 7mila in più.
Dunque, al momento, in Italia, non vi è traccia né di crescita economica, né di equità. E ci pare proprio che prenda corpo, con una certa consistenza, l’ipotesi che le favole, in realtà, le raccontino gli esponenti tecnici e politici del partito dell’austerità e i media complici, che continuano a spacciare per valide delle ricette ideologiche, fin qui, ripetutamente smentite dall’evidenza empirica.
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C’ERA UNA VOLTA LA RIVOLUZIONE LIBERALE (PER UN NUOVO MIRACOLO ITALIANO) – Se l’economia reale va male, quanto meno, andrebbe riconosciuta l’efficacia dell’azione di governo rispetto al temibile spauracchio dello spread, si obietterà. D’altra parte, a inizio dicembre, l’obiettivo del dimezzamento di questo indicatore, rispetto al dato con cui Monti si era ritrovato a doversi confrontare all’inizio del suo mandato, sembrava davvero realizzabile, essendo sceso, finalmente, sotto la soglia dei 300 punti. E, non a caso, il prudente economista bocconiano era arrivato a sbilanciarsi pubblicamente, esprimendosi esattamente in questi termini:
«Desidero confessare che per me c’è un livello di spread a 287 punti base che rappresenta un obiettivo e che spero sia presto toccato».
Riccardo Realfonzo, però, sul punto, rende finalmente esplicito ciò che più volte abbiamo sottolineato nel corso delle nostre riflessioni presenti e passate: il ruolo decisivo della BCE, nella partita.
«Effettivamente, nei giorni scorsi la differenza tra il costo del debito italiano e quello tedesco era giunta a dimezzarsi, e questo significa che gli investitori hanno chiesto un “premio” considerevolmente più basso per rinunciare ai sicuri bund tedeschi e prendere i nostri btp. Ma il merito è davvero di Monti? Analizzando dati e grafici si arriva senza possibilità di dubbio a concludere di no.
Infatti, ancora il 24 luglio scorso, lo spread toccava valori intorno al 5,4%. Ma subito dopo il governatore della BCE, Mario Draghi, faceva capire a tutti che avrebbe finalmente assunto una linea interventista, in funzione anti-spread. Nel giro di tre giorni lo spread si riduceva di un punto percentuale. Successivamente, ai primissimi di settembre, i nuovi annunci sulla disponibilità della BCE ad effettuare acquisti illimitati dei titoli dei Paesi in difficoltà procurò, nel giro di un paio si settimane, un nuovo crollo dello spread che andava ad attestarsi su valori di poco superiori al 3%. Gli accordi sul fondo salva-stati e, nei giorni scorsi, a sostegno delle finanze greche hanno fatto il resto.
Chi avesse dubbi su quanto appena affermato potrebbe estendere il confronto ad altri titoli del debito sovrano, ad esempio a quelli spagnoli o a quelli portoghesi. E avrebbe conferma che si tratta di una dinamica europea, in tutto simile a quella appena descritta.
In sostanza, l’austerità di Monti e i “compiti a casa” non c’entrano molto con le “virtuose” dinamiche dello spread cui abbiamo assistito in questi mesi. La ragione del calo degli spread è nella disponibilità a intervenire in chiave antispeculativa della Bce e, in secondo luogo, del fondo salva-stati. Più in generale, e indipendentemente dalla (pessima) qualità degli accordi europei, i mercati hanno percepito una certa consapevolezza europea sui rischi di deflagrazione dell’area euro e una qualche determinazione a evitare questo esito»
Tirando le somme, dunque, il vero merito politico di Mario Monti, nella sua breve esperienza di governo, può esser stato tutt’al più quello di dare maggiori garanzie di affidabilità del suo predecessore, alla BCE e ai partner europei. Il che, stante la cronaca recente, col prepotente ritorno in campo di un ormai quasi ottuagenario Silvio Berlusconi, ci impone di aprire una lunga parentesi sull’incapacità della destra italiana di emanciparsi una volta per tutte dal suo padre padrone e sul ruolo imponente che il vissuto personale e politico di quest’uomo ― piaccia o meno ― ha avuto nella storia recente del nostro Paese.
Ovviamente, non staremo qui a ripercorrere per filo e per segno tutte le vicende del (quasi) ventennio berlusconiano, ma alcuni punti fermi crediamo di poterli individuare agevolmente. Stiamo parlando di un pluri-indagato, ricchissimo e potentissimo, un uomo che è stato ed è la personificazione del concetto stesso di conflitto di interessi: titolare di un impero mediatico che ha il suo punto di forza nelle tre reti TV che assieme sono riuscite a tener testa al colosso RAI per oltre due decenni; da uomo di governo, non solo ratifica per legge il duopolio televisivo (e la legittimità della propria posizione dominante nel settore privato), ma colloca al contempo una serie di pedine chiave nella televisione pubblica, di fatto, trasformando il panorama televisivo italiano in qualcosa di simile a un monopolio monocolore. Stravolge altresì un intero sistema giudiziario, riducendo i tempi di prescrizione di moltissimi reati e depenalizzando alcune specifiche fattispecie criminose di cui era accusato. Prova in tutti i modi a sfuggire ai diversi processi in cui si trova coinvolto, da ultimo per vicende talmente incresciose (sesso a pagamento con una minorenne) da gettare su di lui un ombra di discredito sul piano internazionale, senza precedenti.
Nella costruzione mediatica della sua fedelissima macchina di propaganda, quest’uomo diventa invece una sorta di perseguitato politico. Tralasciamo per carità di patria di riportare tutte le dichiarazioni vittimistiche con le quali costui ― uno degli uomini più ricchi del mondo ― ha avuto, più volte, l’ardire di sostenere di essere al centro di un complotto giudiziario quasi ventennale che, per come è strutturato il sistema processuale italiano, dovrebbe vedere coinvolti decine e decine di magistrati di ogni grado, dato che sulla base di accuse (a suo dire) inesistenti lui si è sentito in dovere di cercare varie strade per sfuggire alla verità processuale, invece di chiedere ai giudici di accertare rapidamente la sua (a suo dire) assoluta innocenza, con formula piena, nei due gradi di giudizio di merito e nel giudizio di legittimità in Cassazione. Non possiamo, tuttavia, non sottolineare come le stesse persone che lo difendevano come avvocati in tribunale, poi, andavano in parlamento a votare leggi che potevano mutare in meglio la sorte processuale del loro assistito, nonché leader politico.
Ma tutto questo, per quanto non possa piacere, è avvenuto ripetutamente perché in più di un’occasione Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni politiche e ha avuto modo così di legiferare come meglio credeva, avendo la maggioranza parlamentare per farlo.
E già questo punto ci sembra molto importante, dato che il Nostro molto spesso ha lamentato la sua difficoltà a realizzare quanto prometteva in campagna elettorale (in ciascuna delle tre campagne elettorali vincenti, se vogliamo dirla tutta), perché “non aveva il 51%”, cercando così di scaricare sugli alleati di governo il fallimento del progetto politico programmatico. Curiosamente, però, il Cavaliere dimentica che la maggioranza per effettuare tutti i correttivi normativi che più direttamente gli interessavano ― quelli “ad personam”, insomma ― chissà come, alla fine, c’è sempre stata.
Molto più sincere sono le affermazioni del grande imprenditore prestato alla politica sulla Costituzione repubblicana, come vincolo inaccettabile al suo potere. Tutto il ventennio berlusconiano è stato giocato sull’occultamento della formula completa del secondo comma dell’art. 1 della nostra Legge fondamentale. Berlusconi si è sempre proclamato Sovrano per interposta persona del popolo che lo ha eletto, omettendo sempre di ricordare, però, che «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Con il che si scopre quanto sia eversivo il messaggio politico di fondo di un personaggio che ha legiferato più volte contra Constitutionem e che arriva ora a descrivere il giudizio di conformità a Costituzione delle leggi come una sorta di mezzo col quale i suoi avversari politici (i magistrati politicizzati; sempre a suo dire, ovviamente), riescono a bloccare il suo operato, tutte quelle volte in cui il 51% di parlamentari favorevoli a far passare un provvedimento incostituzionale, evidentemente, c’erano.
In definitiva, Silvio Berlusconi, l’uomo “sceso in campo”, nel 1994, per fare la rivoluzione liberale e realizzare un nuovo miracolo italiano si è guadagnato da allora per ben tre volte la fiducia della maggioranza degli elettori italiani. Solo che, poi, nel corso delle legislature in cui aveva la maggioranza, l’unico programma che riusciva sempre ad attuare fino in fondo era quello che più direttamente (e personalmente) gli interessava realizzare, mentre la rivoluzione liberale restava sempre buona per la campagna elettorale successiva. Un po’ come lo spettro della minaccia comunista da scongiurare, che pure fa sempre comodo, all’occorrenza.
Sul punto, Marco Sarti, in poche righe, riesce a essere particolarmente incisivo:
«Meno tasse per tutti. Tra le campagne di comunicazione di Berlusconi questa è una delle più ricordate. Ma la rivoluzione antistatalista di Forza Italia era molto di più. “Il neonato partito si presentò alle sue prime elezioni con un programma di riforme liberali quale non si era mai visto in Europa” ricordava sul suo blog Antonio Martino. Più spazio per imprese e individualità. Magari a discapito degli accordi con i sindacati. Meno allo Stato invadente e illiberale. “Credevamo che dalla privatizzazione delle troppe attività statali si sarebbero ricavate risorse per ridurre l’immenso stock di debito pubblico e che, grazie anche alle liberalizzazioni, avrebbero dato un impulso alla crescita”.
Al di là della nostalgia, cosa resta oggi di quel sogno? Poco. Forse niente. Ecco perché il ritorno allo spirito del ’94 di Berlusconi assume i connotati della presa in giro. L’ennesima, dato che il progetto viene ciclicamente recuperato. Intanto la spesa pubblica continua a crescere. Solo dal 2001 al 2006 ― a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi ― è aumentata di quasi il 17 per cento. Così la pressione fiscale. “Se il cittadino percepisce le tasse come giuste, se gli si richiede di versare il 33 per cento, è invogliato a pagare ― diceva il Cavaliere nel 2004 ― Se invece gli si chiede il 50 per cento del suo reddito si sente moralmente autorizzato ad evadere”»
Quest’ultima notazione di Sarti, in verità, evidenzia un primo elemento che può dirci qualcosa di assai significativo sul persistente consenso registrato da Berlusconi nella sua lunga stagione politica. In un Paese con la mole di economia sommersa che l’Italia si trascina dietro da tempo immemore, senza mai ottenere veri scatti in positivo sul recupero dell’imponibile evaso, è chiaro che un leader che si esprime in questi termini tranquillizza molto l’evasore, piccolo e grande, sul tipo di trattamento cui potrà andare incontro, se dà la sua fiducia (e il suo voto) a chi solidarizza ed empatizza con lui, anziché additarlo come responsabile del dissesto del bilancio pubblico nazionale.
Se poi nelle legislature berlusconiane arrivano puntualmente le sanatorie fiscali e i condoni edilizi, potendone anche beneficiare in forma anonima, pare evidente che qualcosa di concreto per cui votarlo lo abbiamo infine evidenziato.
Sul piano della propaganda mediatica invece va detto subito che, soprattutto dal 2001 in avanti, la narrazione liberale ha lasciato il campo alle tematiche più tipiche delle destre ultraconservatrici e xenofobe. In una battuta, ha prevalso l’anima leghista/post-fascista, se si considera che le norme che più si ricordano dei governi Berlusconi sono: la Bossi-Fini, con le previste restrizioni sulle immigrazioni; la Fini-Giovanardi, con la sostanziale eliminazione della distinzione tra droghe leggere e pesanti, entrambe quindi sanzionabili; la Legge 40 sulla PMA, con la conseguente consacrazione dell’embrione a pieno soggetto di diritti esigibili in suo nome, salve le norme sulle IVG; la Legge Biagi, con tutto il suo carico di precarietà, ma che veniva venduta come naturale reazione all’eccessiva rigidità delle garanzie e dei diritti, conquistati negli anni Settanta del secolo scorso.
Forse, quest’ultima normativa è l’unico vero punto di contatto col pensiero liberale. Con il che si può anche comprendere meglio il disagio della minoranza liberale di fronte a questo misto di piccole furberie contabili, conservatorismo barbaro e clericalismo di facciata. E la recente e convinta adesione al progetto egemonico di spostarsi stabilmente (anche?) nel campo della sinistra assume, quindi, contorni abbastanza definiti.
Dal famoso testo ― “Il liberismo è di sinistra” ― di Alesina e Giavazzi, alla recentissima e agguerritissima battaglia per la conquista della leadership nel PD (formalmente in coalizione con SEL e col micro-partito socialista; sostanzialmente una sfida tutta interna al partito), la contaminazione liberal del campo storicamente avverso ha rappresentato dunque un ultimo tratto distintivo dell’epopea berlusconiana. Una contaminazione che, probabilmente, ha raggiunto il suo apice, proprio quando la figura di Berlusconi era già in declino: ciò che si evidenzia non tanto nell’appoggio esplicito (e probabilmente strumentale) che il vecchio leader del centrodestra italiano ha pubblicamente rivolto al giovane aspirante leader dell’opposto schieramento politico, quanto piuttosto nell’identità stessa di una bella fetta della potenziale base elettorale del sindaco di Firenze. Matteo Renzi, infatti, nel condurre la sua lotta contro il vecchiume da rottamare nel suo partito, si è ritrovato a godere di un consenso ipotetico che, in larga parte, gli veniva da persone che si definivano candidamente “di destra”. Auto-definizione talmente radicata da non permettere, poi, a costoro di andare a incidere effettivamente sul risultato finale della sfida tra Renzi e Bersani, visto che l’unico vincolo per votare era quello di registrarsi come elettore del centrosinistra e considerato che il corpo elettorale è rimasto pressoché identico a quello delle primarie (di partito) che elessero Bersani segretario.
Con la netta sconfitta ― Renzi alla fine non è riuscito nemmeno a raccogliere tutti i voti dell’opposizione al segretario ― di questa sorta di mini rivoluzione liberale nel PD, tentata, soprattutto, sfruttando l’entusiasmo per quel rinnovamento che resta pur sempre auspicabile, sul piano degli interpreti e anche su quello dei programmi (ma non certo per abbracciare quelli dell’altra parte…), si apre, infine, l’annoso dibattito sul rapporto tra pensiero liberale e berlusconismo.
Massimo Mucchetti, nel suo “La strana pretesa dei liberisti. Chiedere alla sinistra di fare la destra”, all’indomani del consolidamento della leadership di Bersani nel PD, è lapidario, sul punto:
«La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà fare i conti con l’età berlusconiana. E questa è una responsabilità alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd».
Michele Fusco, su Linkiesta, è ancora più esplicito:
«Il campo della destra non può essere considerato un campo di cui vergognarsi solo perché vi ha soggiornato vent’anni da imperatore Silvio Berlusconi. È ora, cari liberali, di farsene una ragione».
E tuttavia le legittime aspirazioni di chi desidera costruire anche in Italia la destra liberale, chiudendo per sempre la parentesi padronale del berlusconismo, sembrano destinate a scontrarsi, ancora una volta, con la sua rinnovata voglia di candidarsi―sesta candidatura consecutiva (caso più unico che raro nelle democrazie compiute)―a leader del proprio schieramento politico.
Una voglia di conservare la propria posizione di potere, ovviamente (e sconsideratamente), assecondata da quell’apparato di partito che sembra molto più una corte, che una dirigenza politica, ma ― e qui sta il vero nocciolo della questione ― l’incognita emergente, stavolta, è questa: fuori dalle logiche del vassallaggio e della cortigianeria, c’è ancora quel popolo delle libertà, disposto ad assecondare in massa il vecchio leader e il nuovo (o vecchio) partito che starebbe per (ri)fondare?
Sappiamo bene che il crollo del PDL nei sondaggi, nella lettura del suo leader storico, va attribuito prevalentemente al basso profilo che lui ha scelto di tenere in questo anno di governo tecnico. In altri termini, per Berlusconi, se il PDL è sceso dal 37% (e rotti) di consensi reali registrati alle elezioni del 2008, al 15% circa dei sondaggi più recenti, non vi è nessuna responsabilità sua personale. Anzi: col suo ritorno sulla scena in grande stile e con un nuovo (o antico, ma glorioso) marchio politico, tutto il popolo del centrodestra ritroverebbe magicamente fiducia e rimetterebbe nuovamente nelle sue mani il proprio destino e quello dell’Italia tutta.
Sappiamo anche che si è vociferato per mesi di una scelta popolare del nuovo leader del centrodestra italiano, con elezioni primarie da svolgere il 16 dicembre. Primarie, ora, annullate perché ― parole del povero segretario del PDL, Alfano ― Berlusconi “è il detentore del titolo” e quindi se resta in campo ha il diritto di difenderlo.
Quello che forse non tutti sanno è cosa pensano gli elettori del PDL, di questa scelta. E il risultato è molto interessante: secondo l’Istituto Piepoli, la maggioranza assoluta (ben il 64%) del potenziale elettorato di centrodestra desiderava un leader scelto con le primarie, mentre solamente per il 16% risulterebbe preferibile la ricandidatura di Berlusconi, senza competizione interna. Significative ci sembrano anche le motivazioni espresse dal minoritario zoccolo duro berlusconiano, che per un terzo (5%) “crede in lui” per atto di fede, per un altro terzo “per continuità”, mentre è solo il terzo restante a essere convinto che il Cavaliere sia «l’unico che può vincere contro il Centro Sinistra».
Poi, magari, Berlusconi stupirà tutti con l’ennesima rimonta strabiliante in campagna elettorale, ma i numeri dicono che, ad oggi, c’è un vasto spazio per coltivare il campo della destra liberale, in opposizione all’eterno ritorno dell’uomo di Arcore.
Se dunque ha visto bene chi ipotizza che il recente annuncio di imminenti dimissioni di Mario Monti possa preludere a un suo impegno politico diretto, forse, il quadro politico nazionale potrebbe finalmente chiudere un’epoca e ricomporsi, in uno scenario più in linea col corrispettivo quadro europeo.
Purché Monti ammetta apertamente, però, di rappresentare una ben precisa e individuata area politica (nel campo della destra liberale), mettendo così definitivamente da parte le ipocrite pretese di asettica imparzialità.
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C’ERA UNA VOLTA LA DEMOCRAZIA? – Con l’ennesima (ipotesi di) discesa in campo di Silvio Berlusconi, la cronaca di questi giorni ci ha permesso di comprendere già abbastanza bene come si potrebbe delineare la campagna elettorale che, a questo punto, dovrebbe portare l’Italia al voto anticipato, nella seconda metà di febbraio. La scelta del PDL di non votare la fiducia al governo Monti, senza sfiduciarlo espressamente, in effetti, è stata un chiaro segnale di una precisa strategia politica: condurre una campagna elettorale anti-governativa e anti-europea, da giocare sull’ondata del malcontento popolare, radicatosi in quest’ultimo anno di stretta rigorista. Monti, ovviamente, lo ha capito subito e ha giocato d’anticipo, rassegnando le proprie dimissioni al Capo dello Stato, garantendo comunque tutto il proprio impegno per l’approvazione delle normative di bilancio, onde evitare che le conseguenze della crisi di governo possano essere “ancora più gravi”. Una scelta che, come dicevamo, è parsa a molti commentatori politici come il preludio di una vera e propria candidatura del tecnico bocconiano, che in questo modo dismetterebbe (finalmente!) i panni della figura al di sopra delle parti.
Ma prima di provare a tratteggiare il quadro del complesso scenario politico ― nella partita a scacchi tra i due leader conservatori, la più recente contromossa del Cavaliere si è tradotta in un pubblico annuncio di ritiro della sua candidatura, qualora Mario Monti sciogliesse la riserva, decidendo di prendere parte alla prossima competizione elettorale ― che ci riservano questi due mesi circa di campagna elettorale, va sottolineato subito che nei giorni scorsi è accaduto esattamente ciò che un anno fa veniva dipinto come un’eventualità dall’esito tragico quasi certo: governo privo di uno stabile sostegno parlamentare maggioritario e, quindi, conseguente e imminente scioglimento anticipato delle camere, con Berlusconi che sembrava ormai pronto a lanciarsi in una campagna elettorale ultra-nazionalista, contro Monti e il complotto tedesco escogitato per farlo fuori e altre enormità di questo genere.
Al momento, però, del paventato scenario di devastazione finanziaria non vi è traccia: qualche turbolenza in apertura di mercati a inizio settimana, ma niente di trascendentale, nonostante la concomitanza con le aste dei titoli pubblici nazionali, che, anzi, in realtà, hanno ottenuto risultati decisamente incoraggianti.
E tutto questo non dovrebbe sorprendere, semplicemente, perché rappresenta un’ulteriore conferma del ruolo decisivo che in materia ha avuto la strategia della BCE.
In proposito, ci sembra molto utile trascrivere per esteso la parte più significativa dell’ottima analisi di Davide Maria De Luca, uscita su Il Post di un paio di mesi fa:
«Il piano di Draghi si chiama Outright Monetary Transaction ed è un piano per acquistare una quantità non determinata in anticipo di titoli di stato, con una scadenza (“maturità”, con termine tecnico) da uno a tre anni, emessi da paesi in difficoltà. Gli acquisti avverranno: 1. sul mercato secondario; 2. saranno sottoposti ad alcune condizioni; 3. saranno sterilizzati. Ecco cosa significano queste condizioni, in parole semplici.
Che cos’è il mercato secondario
Il mercato secondario è quel “posto” dove i titoli di stato vengono scambiati giorno per giorno. I titoli arrivano sul mercato secondario dopo che sono stati venduti all’asta dai vari paesi emettitori. In altre parole, lo stato vende i suoi titoli durante un certo numero di aste nel corso di un anno. Chi compra i suoi titoli poi li può scambiare con altri privati tutti i giorni sul cosiddetto mercato secondario. Le quotazioni con le quali vengono scambiati i titoli sul mercato secondario influenzano direttamente i prezzi ai quali i nuovi titoli di stato saranno piazzati alle aste ufficiali dei vari paesi.
Se la BCE avesse deciso di intervenire sul mercato primario, cioè alle aste in cui i governi offrono i loro titoli al mercato (una cosa che per statuto non può fare) avrebbe finanziato direttamente i governi in crisi. L’Italia, per esempio, avrebbe potuto emettere 100 titoli e la BCE, comprandone 50, avrebbe “stampato denaro” per finanziare il governo italiano. Agendo solo sul mercato secondario, invece, la BCE agisce quando oramai il titolo è già stato acquistato da un privato, non finanzia direttamente lo Stato, ma agisce calmierando (cioè mantenendo bassi) i prezzi dei titoli in modo che restino bassi anche in occasione delle aste ufficiali, permettendo così ai governi di finanziarsi sempre presso i privati, ma a un costo più basso.
Quali saranno le condizioni
Uno dei problemi principali di tutti i programmi di acquisto di titoli di stato di paesi in difficoltà, e di ogni altra forma di aiuto finanziario, è il cosiddetto “azzardo morale”, quel fenomeno per cui se chi ha commesso un errore (come spendere più soldi di quanti ne ha guadagnati) viene salvato si crea un incentivo a rifare lo stesso errore. Questo è il punto spesso sollevato dai tedeschi, che chiedono misure di austerità in cambio dell’aiuto proprio per evitare l’azzardo morale.
Per questo motivo il piano di acquisto annunciato dalla BCE sarà condizionale, cioè la banca centrale proseguirà con i suoi acquisti di titoli di stato solo se il paese soddisferà determinate condizioni in materia di disciplina dei conti. Non è stato ancora specificato cosa e quando la BCE chiederà di fare per continuare l’acquisto. La decisione di iniziarlo o di sospenderlo sarà comunque presa autonomamente dal consiglio della BCE.
Che cosa vuol dire “sterilizzati”
Quando la BCE acquista dei titoli di stato deve creare del denaro per farlo (anche se raramente lo stampa fisicamente). Creare denaro, però, può causare inflazione in certe situazioni e il timore di un’inflazione fuori controllo è, insieme all’azzardo morale, uno dei principali timori dei tedeschi che siedono nel consiglio della BCE. Il modo con il quale si cerca di evitare l’inflazione quando la BCE fa degli acquisti si chiama sterilizzazione.
Per sterilizzare un suo acquisto una banca centrale, semplicemente, riprende con la mano sinistra il denaro che sta distribuendo con la destra. Il metodo più utilizzato per farlo, e che verrà usato anche in occasione di questo programma, è quello di chiedere alle banche di aumentare la riserva di denaro che per legge tutte le banche hanno depositato presso la BCE (su questa riserva la BCE paga alle banche un interesse molto basso). L’incremento di questa riserva è più o meno corrispondente alla quantità di denaro creato per acquistare i bond. In questo modo gli aggregati monetari (cioè la quantità di moneta in circolo) non cambiano molto e l’inflazione dovrebbe venire evitata (anche se in proposito ci sono dei dubbi da parte di alcuni economisti)».
A questo punto, è del tutto evidente che la partita speculativa che si è svolta nei mesi scorsi non vedeva crescere i tassi di interesse dei nostri titoli del debito pubblico, per la sua entità: ovvero per l’entità del debito in valore assoluto e in rapporto al PIL nazionale. Questi valori, come è noto, sono particolarmente elevati già da diversi anni. Se l’anno scorso i titoli di debito italiano sono stati collocati con una certa difficoltà sul mercato, nonostante avessero raggiunto tassi di interesse vantaggiosissimi che si aggiravano intorno al 7%, la ragione principale era la prospettiva dell’investitore di ritrovarsi non tanto con un titolo non esigibile in portafoglio, quanto piuttosto con un titolo che rischiava di valere molto meno nell’eventualità (a quel tempo) non remota che l’Italia dovesse uscire dall’euro, ritrovandosi in breve tempo con una diversa moneta nazionale considerevolmente svalutata.
Quando quest’estate Mario Draghi dà l’annuncio che l’euro è da considerare “irreversibile” e poi vara per la tenuta dell’unione monetaria quei meccanismi che abbiamo analizzato poc’anzi, è evidente che il rischio uscita dall’euro diventa, nella sostanza, pressoché inesistente e se residua ancora un margine per le attività speculative sui titoli di debito nazionali, ciò è dovuto proprio alla struttura del meccanismo escogitato dalla BCE. Un meccanismo che, per assicurare l’uniformità della politica monetaria, prevedesse l’acquisto automatico dei titoli, in presenza di determinate fluttuazioni negli spread, di fatto, azzererebbe i margini di manovra speculativa. Il meccanismo dell’OMT, invece, prevedendo la richiesta dello Stato membro e una trattativa per il rispetto delle condizionalità suddette, lascia aperto un certo margine di manovra agli speculatori, stante l’ovvia riottosità di qualunque Stato democratico a sottoporsi a programmi pluriennali di politica economica dettati da organismi internazionali che non rispondono a nient’altro che alla propria coscienza e alle proprie convinzioni.
Dovrebbe essere, quindi, ancor più chiaro il nostro ripetuto caveat sui limiti di una moneta unica senza uno Stato unico e con una Banca centrale che non può fare da prestatore di ultima istanza, ma deve ricorrere, per calmierare i tassi di interesse, a complessi meccanismi come quello della transazione monetaria diretta, fin qui analizzato.
Ma se qualcuno conservasse delle perplessità residue, in proposito, forse, può essere risolutivo questo interessante passaggio di un articolo di Domenico Moro, uscito in piena estate su Pubblico:
«L’attuale debito pubblico italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul PIL nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della UE e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca.
Nel 1984 l’Italia spendeva ― al netto degli interessi sul debito ― il 42,1% del PIL, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del PIL nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media UE passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della UE. La crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, soprattutto dalla necessità di sostenere le crisi e la caduta dei profitti privati che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più avanzati. Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della domanda, quale è la Banca centrale, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale.
Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali».
Questi numeri, da un lato smentiscono la vulgata propagandistica anti-Welfare nota come “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” o nel “mondo di favola”, per dirla come Draghi, ma dall’altro testimoniano, al di là di ogni ragionevole dubbio, quanto possa essere fuori dalla realtà la propaganda berlusconiana di ritorno, che ha dato un primo assaggio di una eventuale (ed ennesima) campagna elettorale col vecchio premier ancora in prima linea, proprio all’inizio di questa settimana: lo spread sarebbe un imbroglio, perché ― secondo il grande statista di Arcore ― non importa nulla di quanti interessi si pagano sul debito pubblico.
E in uno scenario politico in cui la destra italiana non riesce ancora a prendere definitivamente le distanze da un leader imbolsito e incattivito, che non solo non gode più dello straordinario consenso di una volta, ma che non può nemmeno più contare del fido asse con la Lega Nord, una sinistra degna di questo nome potrebbe condurre in porto una campagna elettorale vincente, con estrema facilità, se solo riuscisse a riconnettersi col proprio popolo e avesse il coraggio di sposare e difendere la causa della classe lavoratrice, dalle politiche di spoliazione messe in campo dalla classe dominante.
Sul punto, c’è un passaggio molto incisivo del testo di Gallino citato in apertura di discorso. Vale la pena di leggerlo con estrema attenzione, perché dà la misura di quanto sia rilevante questa partita politica e di cos’è che contribuisce pesantemente a mettere in sofferenza i pubblici bilanci:
«Negli Stati Uniti, ad esempio, il presidente Bush all’inizio degli anni Duemila ha introdotto degli sgravi fiscali che hanno permesso al 5-10% delle famiglie con il reddito più alto di risparmiare ciascuna, in media, centinaia di migliaia di dollari di imposte l’anno, mentre per il restante 90%della popolazione il vantaggio fiscale si è aggirato intorno ai 1000 dollari o poco più.
In Francia, il presidente Sarkozy ha ridotto notevolmente sia la tassa sulle successioni sia quella che si chiama l’imposta sulle grandi fortune. Anche qui, una porzione della popolazione compresa tra il 5 e il 10% ha goduto di sgravi che si sono aggirati in media sulle centinaia di migliaia di euro. A questo riguardo, nel 2010 è stato pubblicato un rapporto destinato all’Assemblea francese,prodotto da uno degli uffici interni dell’Assemblea stessa,in cui si notava che in dieci anni, dal 2000 al 2009, gli sgravi fiscali ― concessi in misura quasi totale soprattutto ai ricchi ― avevano comportato tra i 101 e i 120 miliardi di euro di mancate entrate. In dieci anni, questa somma colossale ha contribuito a svuotare le casse dello Stato e a rendere perciò indispensabili ― questa la conclusione del governo ― tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al personale della pubblica amministrazione. Ciò allo scopo di ridurre un onere per lo Stato che, così sostiene non solo il governo francese ma ogni governo di centro-destra e parecchi di centro-sinistra (vedi i casi di Grecia e Spagna),nella situazione attuale tutti debbono concorrere a ridurre. L’ironia delle cifre vuole che in Francia i suddetti tagli dovrebbero ammontare, secondo quanto ha dichiarato il primo ministro Francois Fillon ai primi di novembre 2011,a circa 100 miliardi…»
E sia ben chiaro: quando si tagliano servizi pubblici essenziali come pensioni, sanità e istruzione, non si elimina alcuno “spreco” ma si mette semplicemente sul mercato una domanda considerevole di servizi ― quote tanto più elevate, quanto più a fondo si procede con l’opera di riduzione dei benefici erogati dal settore pubblico ― sui quali chi ha capitali da investire può lucrare ingenti profitti. Con il che la classe dominante ci guadagna due volte: con la riduzione della propria quota di contribuzione sul versante delle entrate pubbliche e con le occasioni di investimento. Sperando altresì che il riassorbimento, da parte del settore privato, delle quote di posti di lavoro tagliate nel pubblico, non lasci a casa troppi lavoratori, considerati superflui.
In un Paese, in cui l’Istat certifica che (dati 2011) «il 28,4% delle persone residenti è a rischio povertà o esclusione sociale» ― rischio che è «in crescita di 2,6 punti percentuali rispetto al 2010» oltre ad essere «più elevato rispetto a quello medio europeo (24,2%), soprattutto per la componente della severa deprivazione (11,1% contro una media dell’8,8%)» ― e il Censis ci dà la misura esatta di quali effetti produce questa lotta di classe condotta dall’alto verso il basso, dato che «la quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro (…) è praticamente raddoppiata, passando dal 6% al 12,5%, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è diminuita dal 66,4% al 48,3%», come è possibile che la sinistra non imposti la propria campagna elettorale e il proprio progetto di cambiamento del Paese proprio sulla risoluzione di queste disuguaglianze e di questi problemi?
Una sinistra che sappia parlare ai 3 milioni di disoccupati e agli altrettanti precari, nonché alle migliaia e migliaia di cassintegrati e di esodati e, assieme a loro, a tutto il mondo del lavoro in sofferenza pluriennale, per ricostruire, nel corso della prossima legislatura, un tessuto produttivo in crisi permanente, anche attraverso un oculato intervento del settore statale nell’economia. Una sinistra che vari un programma pubblico di assunzioni e stabilizzazioni nei comparti giustizia, sanità e istruzione. Una sinistra che punti ad avere le eccellenze nel settore pubblico, a cominciare dalla ricerca scientifica, in modo tale da essere anche un punto di riferimento e uno stimolo competitivo per gli omologhi settori privati di competenza. Una sinistra che introduca finalmente anche in Italia come quasi ovunque nel resto d’Europa una forma di sussidio universale per la disoccupazione involontaria (si chiami o meno “reddito minimo garantito” (82), è la sostanza dell’intervento normativo quello che conta). Una sinistra che si impegni strenuamente per recuperare le risorse necessarie per queste voci di spesa, azzerando i 60 miliardi di costi della corruzione nel settore pubblico e abbattendo l’enorme mole dell’imponibile evaso, chiedendo, per tutto quello che manca, il contributo ― anche temporaneo ― dei ceti che negli ultimi decenni hanno solo accumulato ricchezze, sovente portandole pochi chilometri oltre frontiera.
Una sinistra che voglia impegnarsi seriamente su questo modello di cambiamento, insomma, come può mai pensare che nel perseguimento di questi obiettivi, Mario Monti ― in questi giorni perfettamente a suo agio a colloquio coi conservatori del PPE, che non gli hanno fatto mancare pubblici attestati di stima ― rappresenti una risorsa e non un ostacolo?
Quando Bersani afferma che Monti, per lui, deve «continuare ad avere un ruolo per il nostro Paese» (“il giorno dopo le elezioni, se toccasse a me, il primo colloquio vorrei farlo con Monti per ragionare assieme. Non posso dargli io la destinazione d’uso”), è mai possibile che abbia già dimenticato che lui stesso ha affermato per oltre un anno che il sostegno del PD al governo tecnico, non implicava piena adesione a tutti i provvedimenti votati? Cosa intende per “ruolo”, Bersani? Vuole proporlo come prossimo Presidente della Repubblica o vuole affidargli il ministero dell’economia? Se il ruolo fosse “di governo”, questo significa che la querelle alla base dell’alleanza con la sinistra di Vendola ― la continuità o la discontinuità con l’operato del governo Monti ― è stata infine risolta, azzerando in partenza ogni speranza di rinnovamento nel senso del progresso sociale e dell’inversione delle politiche degli ultimi decenni?
Un Monti che, giusto un paio di settimane fa, metteva nel mirino il Servizio Sanitario Nazionale, iniziando a parlare di insostenibilità dei conti ― esattamente la stessa strategia attuata a suo tempo con le pensioni ― si muove evidentemente nel solco della continuità rispetto a quell’opera di progressivo smantellamento del Welfare State che qui abbiamo ripetutamente denunciato. E ciò al di là delle smentite di prammatica, fatte per smorzare il tono delle inevitabili polemiche che ne sono conseguite.
Davvero la sinistra italiana non si ritiene all’altezza di poter far valere, autonomamente, le proprie ragioni in Europa, senza coinvolgere direttamente Mario Monti nella prossima legislatura?
O il Partito Democratico, più che con la sinistra (italiana ed europea), si sente ormai in linea con il Partito Popolare Europeo? È questa la convergenza post-elettorale del campo progressista coi liberali europeisti di cui parla la Carta di intenti dell’alleanza tra PD e SEL, con la partecipazione testimoniale del micropartito socialista italiano?
Se nel 2013 entrasse effettivamente in vigore il cosiddetto fiscal compact, il PD come vorrà conseguirlo l’obiettivo della riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL al 60% (in Italia, quindi, del suo dimezzamento)? Svendendo il patrimonio del demanio pubblico o facendo pagare finalmente le tasse (anche) a tutti gli evasori, secondo criteri molto progressivi?
Non si può mettere in discussione nulla degli attuali assetti comunitari? Essere europeisti significa azzerare il dibattito politico e aderire ad un qualche modello di pensiero unico?
Si potrà ragionevolmente sottolineare, ad esempio, che fissare un arco temporale predefinito e immutabile per allineare diversi debiti sovrani a un tetto predeterminato, di fatto, mette gli Stati più indebitati in una condizione di difficoltà enorme? E, per tutto quello che abbiamo visto nelle righe precedenti, con che coraggio si può pretendere che si proceda con tagli della spesa pubblica, anche in presenza di fasi recessive dell’economia?
Ci si potrà battere per modificare l’operato della BCE, facendo sì che questa possa anche finanziare direttamente gli Stati, stampando moneta, pur muovendosi nell’ottica di una politica ispirata, tendenzialmente, al contenimento dell’inflazione? O bisogna permettere alla Banca centrale di mantenere l’attuale potere di orientare le politiche nazionali, ogni volta, che si rende necessario un suo intervento calmierante nel senso della OMT, come l’abbiamo opportunamente analizzata poc’anzi?
Interrogativi, questi, che ― in ultima analisi ― rispondono tutti a una non più eludibile domanda di fondo: esiste ancora un principio democratico nella nostra civiltà europea? Perché se c’è un elemento che più di ogni altro caratterizza un sistema democratico è proprio questo: la concreta ed effettiva possibilità di scegliere, di volta in volta, col consenso maggioritario, tra almeno due opzioni politiche alternative e differenti.
E la cosa più inquietante, in tutto questo, è che proprio nel momento in cui la destra partitica ― che in Italia governa dal 2001, se si esclude la breve e controversa parentesi del biennio del Prodi bis ― è debole e frammentata come mai era accaduto nel corso della seconda Repubblica, il PD, il grande partito di centrosinistra, forse, l’unico partito italiano di massa, ora come ora, decide di stringere una sola alleanza numericamente significativa con altre forze politiche di area (stante l’inconsistenza dei socialisti, quella con SEL, ovviamente) e invece di cavalcare l’onda del relativo successo delle primarie, provando a offrire all’intero e frammentato universo del lavoro subordinato una speranza di riscatto e di cambiamento, continua a guardare a Monti e al suo gruppo sociale di riferimento, come perno centrale per la definizione dell’immediato futuro di questo Paese.
Dunque, al momento, lo scenario elettorale è il seguente: si voterà anticipatamente, tra un paio di mesi, con la tanto vituperata legge elettorale ― la 270/2005 ― che il suo stesso autore ebbe a definire, a suo tempo, esattamente nei termini di una “porcata”. Di conseguenza, non solo si ignorerà «l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici della legislazione prevista nel 2005, con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza, sia alla Camera dei deputati che al Senato della Repubblica, senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o di seggi», sottolineata a suo tempo dalla Corte costituzionale, ma probabilmente si verificherà, ancora una volta, una situazione simile a quella che impedì al secondo governo Prodi di chiudere la legislatura del 2006. Se, infatti, la coalizione ristretta voluta dal PD dovesse confermare i risultati (anche i più rosei) fin qui sondati, c’è il rischio concreto di avere una maggioranza di governo solamente alla Camera, grazie al surplus di seggi che viene assegnato a chiunque prenda un voto in più delle liste concorrenti. Ma poiché il meccanismo dei premi di maggioranza, al Senato, prevede un’assegnazione su base regionale, lì ― dove, tra l’altro, le soglie di sbarramento sono irragionevolmente più alte ― è assai probabile che il PD con SEL (come già l’Unione di Prodi, con numeri ben più consistenti) non riesca ad avere una maggioranza nemmeno risicata.
A questo punto, l’apertura a destra è quasi inevitabile: tutt’al più resta da capire se ci si potrà appoggiare a una rappresentanza parlamentare montiana (o centrista, se lo si preferisce) o se, nel caso di presentazione con lista autonoma dai berlusconiani, i sostenitori di Monti rischino addirittura di non eleggere senatori, rendendo così determinante, per la formazione del prossimo governo, proprio l’apporto di voti del partito di Berlusconi, qualunque sarà il suo nome.
Fuori da una vittoria netta della coalizione tra PD e SEL, infatti, uno spazio concreto e sicuro per eventuali alleanze post-voto che non comportino uno slittamento a destra della lista guidata da Bersani, allo stato attuale delle cose, non pare esserci.
Salvo crolli di consenso, conseguenti a una serie di brutti scivoloni che prolunghino quelli già fin qui registrati, il M5S dovrebbe riuscire in ogni caso a eleggere la sua rappresentanza parlamentare. Rappresentanza che, però, non farà alleanze con nessun’altra forza politica. E, al di là di qualunque ― a nostro avviso del tutto legittima ― riserva che si possa avere sui metodi padronali e autoritari con cui Grillo sta gestendo il partito (tra l’altro, in aperta contraddizione coi suoi stessi principi ispiratori), va detto che l’episodio negativo politicamente più rilevante è stato il clamoroso insuccesso delle consultazioni online con cui il Movimento ha selezionato i propri candidati. Qui c’è poco da controbattere al dato numerico: se un movimento politico che si batte per promuovere la democrazia diretta da realizzare per mezzo di internet, alla prima consultazione con questo metodo riesce a coinvolgere poche decine di migliaia di elettori su un corpo elettorale di oltre 50 milioni, il fallimento è in re ipsa.
Resta allora una sola remota possibilità al centrosinistra bersaniano per non dover chiedere i voti a destra, nel caso in cui gli elettori non gli concedessero direttamente una netta maggioranza. La possibilità sarebbe quella di un imprevisto successo del progetto che si va concretizzando attorno allo slogan “cambiare si può”: una coalizione di persone, movimenti e partiti “di sinistra” che si propongono di dare delle risposte assai più nette, di quelle fornite dal centrosinistra, ai tanti interrogativi che abbiamo precedentemente elencato.
Il potenziale bacino elettorale non è irrilevante: anche contando solo i voti dei partiti che negli scorsi anni incalzavano “da sinistra” il PD, si dovrebbe oscillare tra i 3 e i 4 milioni di potenziali elettori. Voti che, in percentuale, sarebbero tanto più pesanti, quanto più alta dovesse essere l’astensione. Per fare un esempio puramente indicativo, usando come riferimento i risultati delle ultime elezioni europee, se questa ipotetica lista unitaria “cambiare si può” riuscisse a intercettare il voto di tutto l’elettorato post-comunista e di quello dell’Italia dei Valori, a parità di votanti (con un’astensione del 35%, quindi), si registrerebbe un risultato più che soddisfacente: 4,5 milioni di voti, pari al 14,5%. La lista unitaria delle sinistre per il cambiamento eleggerebbe così i propri rappresentanti in entrambe le camere, offrendo all’alleanza tra PD e SEL una possibile sponda per connotare il futuro governo di un profilo più smaccatamente progressista.
Inutile dire che se è vero che, potenzialmente, il bacino elettorale di riferimento potrebbe essere infinitamente più consistente ― basti pensare ai 27 milioni di sì che nel 2011 hanno abrogato quattro leggi del governo Berlusconi, ridando vitalità all’istituto referendario dopo ripetuti fallimenti per carenza di partecipazione al voto ― il limite oggettivo di questa proposta politica sta tutto nel fattore tempo. A due mesi dal voto, ci sono tante idee interessanti dal punto di vista dei contenuti, ma non c’è ancora un programma vero e proprio e una decisione definitiva su nome, simbolo, candidature e ― dettaglio decisivo ― raccordo operativo coi partiti interessati già esistenti: se infatti la tattica di formare una coalizione di soggetti politici, unendo PdRC, IDV, Verdi a una o più liste dei movimenti, ha l’indubbio vantaggio di minimizzare il rischio della poca riconoscibilità del nuovo nome e del nuovo simbolo, qualora si optasse per una sola lista unitaria; in negativo, questa tattica si connota per il correlativo doppio svantaggio di disperdere l’effetto novità, oltre a comportare la necessità di dover superare soglie di sbarramento più alte sia alla Camera che al Senato (dove addirittura la soglia per la coalizione diventa un proibitivo 20%).
Su queste basi, le speranze di chi immagina una terza Repubblica, fondata sull’eguaglianza, in cui, finalmente, per la prima volta dal 1948 ad oggi, il governo metta per (almeno) cinque anni gli interessi del lavoro al primo posto, sono appese ad un filo assai sottile. Un filo che, purtroppo, potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
Un’altra Europa e un altro mondo non sono impossibili. Ma per cambiare democraticamente, in meglio, il più delle volte, non basta la sola buona volontà.