Ci capita, storicamente, nel giudicare una situazione, di avere i paraocchi, o di infarcirci di stereotipi che abbiamo ereditato dal mondo in cui viviamo, dai libri che abbiamo letto, dalle persone che abbiamo frequentato: le nostre posizioni più retrograde sono in un certo senso figlie delle casualità, della nostra biografia, dei legami che abbiamo intrecciato con gli altri. Un esempio recente è la primavera araba, ma si potrebbero citare storicamente miliardi di esempi, dalla situazione in Palestina e Israele, fino alla Shoah e all’11 Settembre. Tendiamo insomma alla paranoica arte di prendere posizione anche se siamo stati assenti, non eravamo in un lager, non eravamo dentro le Twin Towers l’11 di Settembre, non siamo in prima linea a combattere nessuna guerriglia pro o contro Israele, e siamo stati irremediabili voyeurs della rivolta araba contro i regimi a Tunisi, a Bengasi, a Il Cairo, e ora in Siria. Ciò nonostante tendiamo a giudicare quello che accade, a parteggiare a turno per l’una o l’altra parte. Torniamo al nostro esempio, che ci è caro perché questo spazio – Revolt 2.0 – ha inquietamente seguito per quanto ha potuto lo scoppio dei moti arabi. A posteriori, hanno iniziato a consumarsi fiumi di scritti col tentativo di dimostrare come l’esperienza della primavera araba sia stata fallimentare, perché ha sostituito un regime dittatoriale con un altro (il caso dell’Esercito in Egitto), oppure ha alimentato dei sogni di democrazia che in realtà erano guidati dalle mire occidentali. Al di là di questo affrettato giudizio, sarebbe interessante per un attimo parlare delle persone, cioè degli individui coinvolti realmente e fisicamente in questa lotta. Pensiamo per esempio a una madre libica che nell’entusiasmo di liberarsi di una situazione che le era pesante – una dittatura , e chissà quanti di noi riuscirebbero a convivere con una dittatura reale -, ha perduto un figlio in battaglia.
Questo è il dramma dell’innocente. Gli innocenti sono coinvolti quotidianamente in tutto il mondo, mentre noi tentiamo di fare il tifo da stadio nelle loro battaglie. Ci sono ”idee” che tendono a separarci, a metterci in conflitto, e alcune sono così ridicole da essere inesistenti (gli dei e l’al di là). Non bastassero le idee ultraterrene, per convenzione ne abbiamo create di nuove: le razze, le nazioni, le etnie, fino anche a parlare di intere ”civiltà” in lotta tra loro. E in nome a queste idee, che poi diventano volgarmente ‘politica’, ogni giorno muoiono innocenti, uomini e donne che stavano solo cercando di vivere. Stare dalle parte delle persone, e non delle idee che ne sono figlie è l’unica battaglia che sosteniamo.