A luglio, tra le strade di Roma, succedono cose strane con nomi strani. È uno di quegli eventi a cui non si può più rinunciare, una volta scoperti. Si culla tra una strana aura di mistero e un boom di pubblicità che non è riuscita in alcun modo a modificarne la natura.
Il suo nome è Half Die Festival e cova le sue uova nei vicoli di Arco di Travertino, tra la Tuscolana e l’Appia Nuova, dove aspetta il tepore delle giornate di luglio per dare alla luce i frutti di un altro anno di lavoro. Si può partecipare liberamente, purché ci si attenga alla lista di regole che il suo creatore ha stilato:
- non è un party né un aperitivo, è un festival di musica: se non siete interessati, non venite
- è gradita la prenotazione via e-mail
- non parcheggiare e non entrare con macchine e motorini dentro il vicolo (l’indirizzo viene rivelato via mail, ndr)
- non schiamazzare e non dare fastidio al vicinato, già di per sé tollerante
- portare qualcosa da bere
- rispettare gli orari e osservare un religioso silenzio durante la performance live
- no scarpe aperte
- venite con chi vi pare, purché sia edotto delle regole.
Per saperne di più, niente di meglio delle parole di chi ha dato vita al festival diciotto anni or sono. Nel rispetto della sua scelta, ci si rivolge a lui con l’appellativo di Morpurgo Benerecetti.
Che parole useresti per spiegare cos’è l’Half Die Festival a chi non ne ha mai sentito parlare?
Direi che è un festival di musica un po’ particolare, perché si svolge in un luogo privato: il tetto di casa mia. È iniziato tutto spontaneamente. Avevo un terrazzo e degli amici con cui mi incontravo per suonare le cose che componevamo. Questi amici hanno cominciato a portare di volta in volta altri amici e ad un certo punto ho pensato che avrei potuto fare un programma, invitare più persone e renderla un’occasione un po’ più ufficiale.
Parliamo del nome Half Die: qual è il vero motivo di questa scelta?
Il motivo è solo uno ed è osceno. Un mio amico si vantava di essere fan di un sito porno che aveva una sezione intitolata Half Die dedicata a donne ultra ottantenni, quindi “mezze morte”. Non ho mai verificato se questa cosa esistesse realmente, ma siccome mi faceva ridere e sono pessimo con i nomi, quando abbiamo dovuto battezzare il festival l’ho chiamato così. Una volta poi venne rielaborato da un giornalista che non poteva raccontare questa storia e scrisse che Half Die (letto come il die latino, quindi ‘giorno’, ndr) indicava l’ora in cui si teneva l’evento, cioè il tramonto.
E se ti chiedessero perché utilizzi lo pseudonimo di Morpurgo Benerecetti?
Lo pseudonimo lo uso perché in realtà sono un commercialista. Siccome ad un certo punto, quasi fuori controllo, molti giornali hanno iniziato a scrivere di questa cosa, non mi andava che venisse citato il mio nome reale. Così ho cominciato a fare comunicati con questo nome ridicolo, che poi è diventato ufficiale.
Infatti parlano tutti del Morpurgo roof. Un’altra particolarità sono le regole che hai dettato per chi voglia partecipare. Come le hai scelte? E perché niente scarpe aperte?
Ecco, quella è l’unica regola cretina che c’è. Una leggenda metropolitana dice che io sia sempre stato un anti-fautore delle scarpe aperte, semplicemente perché non mi piacciono. Gli amici mi prendevano in giro e si presentavano con queste scarpe orrende per farmi un dispetto, quindi ho messo questa regola. Inizialmente era solo per ridere, ma ho visto che alla fine la gente la prendeva molto seriamente. E poi ho scoperto che ci sono un sacco di persone che provano la mia stessa avversione, ma sono quasi timorose di esternarlo. Le altre regole, invece, sono assolutamente serie e sono nate spesso con le esigenze che si presentavano di volta in volta. Ad esempio, mi infastidisce tantissimo il pensiero che si parli dell’Half Die come di un happening o di una festa, quando si tratta solamente di un’occasione in cui si ascolta musica per un’ora e mezza – e possibilmente in silenzio, visto che lo scopo è quello di condividere suoni. Il resto, tipo non parcheggiare lì vicino e portarsi da bere, sono limitazioni che servono a me per la gestione dell’evento.
Si può dire che “discrezione” sia la parola chiave per descrivere sia il tipo di iniziativa sia la tua persona. Sicuramente è una condizione voluta, ma potresti vedere le cose diversamente in futuro? Cosa succederebbe se, ad esempio, ci fosse l’opportunità di ingrandirsi sia da un punto di vista di affluenza sia di visibilità?
Il festival può avvenire solo qui, sul tetto di casa mia e con queste dinamiche. Ci sono state molte proposte di farlo diventare altro e di sfruttare questo nome, che è diventato un po’ un mito. In realtà, secondo me, non c’è nessuna possibilità di trasformarlo, perché nel momento in cui diventasse qualcos’altro, morirebbe. Di idee diverse ce ne sono a centinaia, questa è un’altra cosa.
Quali sono i fattori che influenzano la scelta degli artisti che inviti? E dove li trovi?
Anzitutto, ascolto tantissima musica. Quando sento qualcosa che mi piace, mi chiedo subito “Lo posso ospitare sul tetto?”. La seconda valutazione è relativa a dove l’artista risiede: non essendoci alcun tipo di incasso con il festival, è molto complicato chiamare persone che vengano da oltre oceano, quindi devo tenere in considerazione se ci sia o meno la possibilità di finanziare un collegamento a basso costo. Un altro aspetto importante riguarda la realizzazione logistica, cioè se l’attrezzatura di un artista possa essere ospitata in un posto così particolare, dove la scala d’accesso è molto stretta e dove, per motivi di quiete col vicinato, non si può fare tantissimo rumore né suonare fino a tardi. Spesso riesco anche ad avere contatti con artisti più importanti della location. Essendo una cosa molto particolare, tutti quelli che hanno già suonato qui ne parlano bene e tramite loro riesco ad avvicinare anche musicisti di un certo livello, come Raz Ohara (ha suonato domenica scorsa, ndr) o Sam Amidon (suonerà domenica prossima, ndr), che sono fuori portata, ma vengono qui lo stesso.
Ormai sei alla diciottesima edizione. Ti saresti mai aspettato una risposta simile in una città come Roma?
Sinceramente non me lo sono mai chiesto, è successo tutto quasi inaspettatamente. Anche se, in realtà, c’è stato un preciso momento di follia generale tra i media, quel famoso 2003 dell’estate torrida a Roma. Cominciarono ad uscire una marea di articoli: sul Corriere della Sera in prima pagina, su ‘Musica’ di Repubblica otto pagine con tanto di fotografie e ancora sulla prima pagina della cronaca di Roma di Repubblica. In tutto ciò, l’evento veniva realizzato in un’altra casa dove ero in affitto. Era molto particolare, ma molto meno pratica: aveva un tetto senza ringhiera. Così un giorno la padrona di casa ha letto tutti questi articoli e si è spaventata: anche se eravamo in buoni rapporti, mi ha fatto spostare per motivi di sicurezza.
È possibile che nel corso del tempo, oltre a mantenere la sua natura di progetto prettamente musicale, l’Half Die abbia iniziato a seguire anche una sorta di disegno estetico relativo a fattori come la location?
In realtà, molto più semplicemente, ciò che mi piace è che in questa location si superano tutte le barriere che si presentano di solito. Il pubblico è di tutti i tipi: si incuriosiscono i ventenni e c’è mio padre che ha settant’anni, vengono persone da quartieri diversi e lontani tra loro, persone che ascoltano musica e persone che non la ascoltano. Questo non succede nei locali o agli eventi ufficiali. Mio padre che viene a vedere un concerto al Circolo degli Artisti non ce lo vedo, con lui vado casomai all’Auditorium. Mentre magari il pischello di ventidue o ventitré anni andrebbe da entrambe le parti. E poi in genere non si va a sentire in un locale un gruppo che non si conosce, invece sul tetto di una casa sì. E lo si ascolta pure volentieri. Sembra che in un posto simile, che non è esattamente adeguato per un concerto, si superino tutti quei pregiudizi che si creano in altri contesti. Io non sono un sociologo, ma è una cosa di cui mi sono accorto in tutti questi anni e che mi sembra assolutamente vera.
Hai in mente di continuare con l’Half Die?
Ovviamente sì. Il mio lavoro è un altro e questo è un evento relegato a luglio, ma ha tutto il suo lungo rituale. Ad un certo punto dell’anno comincio a prendere appunti su quello che vorrei sentire, in un altro periodo comincio a valutarne la fattibilità, in un altro ancora ci lavoro e in un altro mi disintossico. È una routine che va avanti da diciotto anni e io sono una persona molto abitudinaria. Se dovesse finire, dovrei trovare qualcos’altro da fare.
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