Ci hanno insegnato un mucchio di cose sbagliate sull’amore

Claudia è una giovane donna. Ha le ali. Ha un ragazzo, Piero, con cui vive una relazione serena, ma adombrata dalla paura di lei di non essere abbastanza. E ha un sogno, fare l’attrice. Ecco, Claudia ha una vita come tante. Tra desideri sommessi, paure striscianti e ricordi dolorosi. E sono questi ultimi, sono le dita di un passato sofferente che si allungano su di lei, a minare il suo presente.

Zuzu, fumettista venticinquenne, ha scritto e disegnato un libro eccezionale. Personaggi vivi e densi, scene che deflagrano tra le mani. C’è la giovinezza, c’è la ricerca di sé, c’è l’amore. C’è la violenza, c’è la voglia d’essere amati, c’è la sopraffazione emotiva e fisica. In Giorni felici – Coconino Press, 2021 – c’è tutto e tutto è mescolato con maestria. Lo sguardo di Zuzu è unico, manifestazione di un sentire che a tratti è un puro ritratto generazionale compiuto e struggente. Ogni cosa esplode, in questo libro. Ogni cosa è illuminata. Ogni cosa è reale, tanto da farci del male e, allo stesso tempo, del bene.

 


Ho letto che Zuzu è il nomignolo con cui ti chiamava tuo padre da piccola, come mai hai deciso di firmarti così?

Perché per me disegnare significa anche riconnettermi a certe parti della mia infanzia. Significa anche tornare a essere la Giulia bimba che non ha paura d’inventare, divertirsi, giocare. Ecco, il disegno per me ha pure una dimensione di gioco e usare questo nome, Zuzu, mi è parso naturale.

Nel tuo disegno, quindi, c’è il tentativo di tornare indietro, all’infanzia?

C’è anche quello, sì.

Ti sei firmata Zuzu fin dall’inizio?

Sì, fin dal primo fumetto. Era sulla forma del mio naso. Sai, da piccola e poi da ragazzina ero convinta di avere il naso all’insù, sottile, finché qualcuno non mi ha detto che no, non ce l’avevo mica all’insù: avevo un naso Spagnulo – il naso di famiglia, insomma. Da quel momento ho cominciato a vedermi in modo diverso, ho avuto la mia prima crisi d’identità, e firmarmi Zuzu pareva la cosa più giusta da fare: lei, Zuzu, lì dentro c’era di sicuro.

A proposito della tua famiglia. Sei figlia di uno psicologo e una psichiatra – innanzitutto, quindi, complimenti per essere sopravvissuta (rido, ride anche l’autrice, ndr). Pensi sia qualcosa che in qualche modo ti ha formata?

Credo mi abbia portato a sviluppare, e poi a esercitare, uno sguardo diverso – sia su me stessa, sia su chi ho attorno. Io non ci riesco, ad accontentarmi di ciò che ho davanti, cerco sempre il significato di ogni cosa, di ogni gesto. Non ho certo la presunzione di dire che capisco le ragioni delle persone che ho vicine o delle cose che mi capitano, però le cerco sempre. E penso che questo sguardo nasca pure dalla formazione che mi hanno dato miei.

Avere questo sguardo ti aiuta, in qualche modo?

Nel mio lavoro sì. Nella vita non lo so, forse no. È che a volte mi piacerebbe vivere con più leggerezza. Fregarmene, senza indagare, e semplicemente lasciar andare.

Giorni felici. Secondo te siamo capaci di riconoscerli, i giorni in cui siamo felici per davvero, nel momento in cui li stiamo vivendo o riusciamo a identificarli solo in retrospettiva?

Con questo libro, in effetti, questa domanda me la sono posta e alla fine, in risposta a me stessa, mi sono trovata a ricostruire il mio concetto di felicità. Il punto è che spesso è associata ad altre cose, la felicità. All’allegria, al successo, alla soddisfazione, alla compagnia di altre persone. Ecco, per me la felicità è qualcosa di diverso. Uno spazio entro cui sofferenza, delusioni e pensieri più tristi possono anche trovare posto. Perché la felicità per me è più che altro vicina alla vitalità, all’essere presenti a noi stessi, alla capacità di trovarsi in un luogo in un momento, a prescindere dallo stato d’animo.

Possiamo imporcela, la felicità? Possiamo fermarci e ordinarci d’essere presenti a noi stessi?

Credo abbia più a che fare con l’istintività: succede e basta. Certo, possiamo pur sempre prendere un respiro, fermarci e domandarci quale sia la ragione per cui ci sentiamo infelici, ma niente di più.
Parliamo di Piero. Claudia con lui ha una relazione serena e sana. Nonostante tutto, però, non sta bene, ed è come se non si sentisse all’altezza del loro rapporto. A cosa è dovuto? Non crede di meritare la felicità?
Penso abbia a che fare con il suo senso di inadeguatezza nei confronti della vita stessa e del suo modo di viversi aldilà del rapporto con Piero. E poi la storia con Giorgio, il suo ex, non è risolta e Claudia continua a riviverla nella sua testa nel tentativo di digerirla, finalmente.

Claudia chiede a Piero se sarà mai intera, lui le risponde che lei, in realtà, è due in una. Secondo te conteniamo moltitudini o piuttosto siamo frammentati?

Entrambi, direi. Nel momento in cui riconosciamo in noi stessi più parti nasce uno scontro: le parti entrano in conflitto. Io mi sono sempre considerata una matassa di cui ogni tanto si vede un pezzo e ogni tanto un altro. O come un appartamento in cui vivono più coinquilini. Stanno bene, sì, però può anche capitare che si scontrino. Quando ci sentiamo un unico pezzo forse è perché questi coinquilini, queste parti, stanno vivendo momentaneamente in armonia.

Parliamo di Giorgio, adesso. La loro è una relazione tossica, Giorgio è un compagno tossico. Un uomo che piega Claudia alle sue esigenze con continui ricatti emotivi. Perché ci lasciamo andare a persone tanto manipolatrici, perché non riusciamo a riconoscerle?

Forse dipende dal fatto che ci hanno insegnato un mucchio di cose sbagliate sull’amore. Ci hanno insegnato che l’amore, una volta trovato, dovrebbe farci sentire felici e realizzati. Che dovremmo trasformarci magicamente in persone migliori. Chiaramente però non possiamo aspettarci così tanto da una sola persona o da una relazione. È sbagliato e impossibile. Però ci hanno insegnato che è così che funziona e di conseguenza queste cose le andiamo creando, finendo con il vivere una relazione inventata da noi stessi con persone inventate da noi stessi. Relazioni e persone che soddisfino i nostri desideri. C’è proprio un’attività di costruzione: notiamo delle mancanze e ci mettiamo su delle pezze in funzione di quello che vorremmo, modifichiamo il nostro sguardo.

Diventa ossessione, a quel punto – sia per la persona che amiamo, sia per l’amore stesso?

No, secondo me è comunque amore. Solo che è amore per una persona che non esiste. Finché non ci svegliamo, poi, e abbiamo l’impressione di aver vissuto una sorta di coma. D’un tratto vediamo tutto diversamente – il che, forse, vuol dire vedere le cose per come stanno.

Capita in tutti i tipi di rapporti?

No, solo in quelli d’amore. Una cosa che mi ha sempre molto colpita è il fatto che le amicizie quando finiscono lo fanno in modo graduale. Ci si sente e ci si vede meno. Le relazioni d’amore no. Finiscono quasi sempre in modo brusco, non ci si vuole più incontrare, si vuole dimenticare quella persona, gli amici devono scegliere da che parte stare. Questo perché non riconosciamo più la persona di cui siamo stati innamorati, la vediamo in modo così diverso da odiarla.

Claudia dice a Giorgio che a lei il vento non fa paura, ciò che la spaventa è la terra. Intende dire che non vuol rimanere fissa sempre nello stesso punto?

Claudia in sé ha una forte tensione verso l’alto, verso il fuori. Ha pure le ali, lei. E perciò ha sempre la sensazione che ci sia qualcosa che la vorrebbe tirare su. È una caratteristica che ha in comune con Winnie, la protagonista del monologo di Beckett – è in Giorni felici, da cui il nome del fumetto. Lei è nella sabbia, affossata fino al collo, e più il monologo va avanti più va giù. Ecco, Claudia ha questa sensazione, ma allo stesso tempo si sente tirata verso l’alto.

Abbiamo parlato molto di amore, oggi. Mi chiedo, ti chiedo, cosa resta di un amore quando finisce?

L’amore non finisce mai, ma si trasforma. Si trasforma in amore verso altri, o verso sé stessi. L’amore ce l’abbiamo dentro, sempre. Semplicemente, cambiamo l’oggetto dei nostri sentimenti.

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