Non ci sono dubbi, Il fuoco in una stanza è il disco della verità per gli Zen Circus. Della presa di coscienza, della maturità. Solo dopo arrivano i suoni. Non più così ruvidi, come ci avevano abituati. Ma melodie rock ritmate, con accenni di pop, prendono il sopravvento sul folk-punk delle origini della band pisana e fanno da sfondo alle storie e alle relazioni, e viaggiano nelle tredici coerenti tracce dell’album. Storie di padri, madri, figli, amici. Di Luca, di Emily e di Anna. Di solitudine e di addii. Tra arrangiamenti curati ed esperimenti musicali, i testi di Appino scardinano l’idea della band cinica e incazzata contro il sistema, esprimendo con il suo estro cantautoriale già accennato nel suo percorso da solista, uno sguardo verso gli altri dolce e rassegnato.
L’ultimo lavoro del circo Zen arriva a due anni dalla pubblicazione de La terza guerra mondiale, il loro nono album. Quello della denuncia sociale, con in copertina Appino, Ufo e Karim, seduti a bere uno spritz e a scattare i selfie tra le macerie di una città. In cui raccontavano, su una sdraio, una guerra combattuta sulla tastiera, malgrado le piazze innocue di Ilenia, che “fanno rivoluzioni solo quando sono vuote”. Avevano ancora mantenuto intatta la rabbia di Andate tutti affanculo (2006) e l’avevano introiettata in Andrà tutto bene ammettendo provocatoriamente “Siamo noi quelli sbagliati che hanno sempre da ridire, che hanno voglia di fare male, che non vogliono star bene”. Tutto questo è passato oramai: questi Zen, con l’aggiunta del maestro Pellegrini sono diversi. Sono dei sopravvissuti. Agli anni ’90, alle mode, alla rabbia delle generazioni cambiate. Al punk rock, al pop, al funk, al rap. Al cinismo, agli stravolgimenti politici, al populismo e alla rincorsa della fama. Restano una band indie nella musica e nello stile, di quelle che ce ne sono poche in Italia. A bordo di un camper, tra birre, cazzate e amicizia, con il giubbotto di pelle vanno incontro a generazioni intere che li aspettano sotto palchi roboanti di tour infiniti.
Nel Fuoco in una stanza la rivoluzione è interna, invisibile. I venti anni di carriera alle spalle trapelano in ogni nota. E si percepiscono nei testi le illusioni deluse – come nel Mondo che vorrei dove “La democrazia è stata abolita a sostituirla una cara amica – e le sconfitte superate”. Sono forti in Catene, il primo singolo del disco e canzone d’apertura dell’album. Già nella prima strofa: inizia Appino e strozza il fiato. Manca il lieto fine non c’è una ragione. Anche il mare oggi sembra una prigione. Non più politica. Ma catene interne, di rapporti, di padri e di madri, di morte. E di rimpianti, che nella musica hanno trovato espressione. Se l’amore non so darlo, se non ne so parlare, dentro la chitarra l’ho provato a immaginare.
È un disco eterogeneo e completo. In cui non poteva mancare una ballad, La stagione. È un inno, quello di Anna, la giovane protagonista, all’accettarsi, ai difetti, alle ferite. E agli errori. Rialzarsi sempre, sempre e comunque e mandare tutti a puttane. Consapevoli di risbagliare, e risbagliare. “Noi siamo quelli vivi, è la nostra stagione. Che cosa ci vuoi fare è la stagione del dolore, combatteremo ancora, combatteremo sempre perché cerchiamo il sonno della morte indifferente”, cantano. La morte torna in Sono umano, come retorica salvezza, per i figli di Netflix e del Gaviscon, all’ansia e all’insoddisfazione: “Vieni a ballare all’obitorio, il più esclusivo ed elitario. Salvati da questo mortorio”. Perla rara è la title-track, nonché secondo singolo del disco. Dalla musica al testo nostalgico, capace di proiettare la Circumvesiana tra quattro mura. Non basta una città intera per sentirti meno sola, libero cos’è per chi libero non è. Come sola è la ragazza al centro della copertina dell’album, nella fotografia di Ilaria Magliocchetti Lombi: si riflette allo specchio vede altre persone accanto a sé, forse la sua famiglia.
Ed è proprio questo che si avverte ne Il Fuoco in una stanza, che dopo anni di rabbia negli Zen vince la celebrazione della collettività, dell’unione. Agli altri si rivolgono per chiedere Voi come fate davvero a scegliere un solo amore? Lo fanno in Questa non è una canzone, una preghiera che si fa strada tra riff lunghissimi, vittimismo personale e ottimismo, nella tenerezza degli occhi di una madre e di un padre. Potranno restare delusi, invece, gli amanti del pogo. Per quello non c’è molto spazio nell’album: qualcosa si può sperare con La teoria delle stringhe ma è tutto da vedere.
Lo conferma la scelta del pianoforte che annuncia l’ultima canzone Caro Luca. Una sfida, vista la profondità del testo e della voce di Appino con il crescente di arrangiamenti commoventi. Degna chiusura di un percorso del tutto introspettivo, iniziato con la mancanza di un lieto fine, in un prepotente incipit in apertura di Catene e, dopo aver oltrepassato lo sguardo di tutti i protagonisti del disco, è approdato in una convinzione. E mostrano di aver costruito in ogni giorno di quei venti anni in cui si sono messi in gioco, sono saliti sui palchi e hanno suonato. Hanno discusso e riso. Magari a volte anche pianto. Ma soprattutto urlato, nelle canzoni, nella musica, nelle parole mettendo a nudo se stessi e la loro anima, quella che conta più di quanto cantano. La convinzione chiude l’ultima strofa del cd. “Che la gloria è bastarda, per averla alla fine devi piacere a tutti Ma a tutti no, a noi tutti, Luca, non ci sono mai piaciuti”.