Quando si organizza un evento per la prima volta, il fatto stesso di riuscire a portarlo all’avvio è un successo, al di là dei numeri e degli incassi.
Quando si organizza un evento per la seconda volta, molto fa l’onda lunga del primo evento; c’è ancora un po’ dell’entusiasmo degli esordi e ci si propone, con l’esperienza maturata, di migliorare i punti non andati bene la volta prima; il successo è rappresentato dalla conferma se non dal miglioramento. I numeri contano, eccome.
Quando si organizza un evento per la terza volta, non si può toppare; o è una consacrazione o un fallimento definitivo.
Dal titolo di questo live report si capisce che non è andato poi malaccio questo Zanne…
Dalla line up alla partecipazione, dall’organizzazione alle attività collaterali tutto è andato a meraviglia.
Ma andiamo con ordine.
Primo giorno: la punta di diamante
Il primo giorno è quello con cui facciamo la conoscenza. Parco Gioeni è l’unico posto in tutta Catania in cui si respira e si possono addirittura indossare i pantaloni lunghi.
Di gente ce n’è davvero tanta, ma non si soffoca (sarà anche perchè ci sono un sacco di bellissime ragazze e, sento dire, la stessa cosa vale per i ragazzi). Il nome di punta, forse quello di tutto il festival, sono i FFS (N.B. non i Franz Ferdinand come pensavano in molti) ma già da quando arriviamo i suoni sono piacevolissimi, con i belgi Balthazar che a onor del vero non conoscevo, ma che ho trovato decisamente in tema con la situazione: le chitarre suonate con una imbracciatura bella alta, la voce un po’ strascinata di Devoldere che ricorda un certo Bob Dylan, il violino suonato a mo’ di ukulele da Patricia Venneste. Insomma la platea si trova piacevolmente ammaliata dalla spontanea vena di malinconia che scorre tra le note dei Balthazar (“We are from Belgium, now there it’s rainy”).
L’atmosfera si fa calda quando in scena entrano Kapranos, soci ed i fratelli Mael. Molti però non sapevano del significato delle lettere FFS e quindi quelli che si aspettavano di canticchiare in inglese maccheronico le hit dei Franz Ferdinand, devono accontentarsi solo di una Take me out sul finale e di qualche “minchia” qua e là di Kapranos. Già perchè se è vero che la ritmica è made in scotland (anche se un po’ rallentata), il genere è decisamente di stampo Sparks, con l’energico glam che caratterizza tutto il disco omonimo. Ed i fratelli si dimostrano fantastici animali da palco con Russell che non smette un attimo di saltellare assieme a Kapranos e con uno splendido Ron con i capelli leccati ed i baffetti che ad un certo punto lascia il piano e si lancia in un passo di danza che dopo lo sbigottimento apre ad una ovazione del pubblico.
E’ vero, si sente qualche critica da parte di chi si aspettava un canonico concerto dei Franz Ferdinand, ma per quanto ci riguarda la giornata non ha avuto nessuna pecca.
Secondo giorno: tromboni, shoegaze e palloncini
Catania è stupenda e ci trattiene quel tanto da arrivare tardi all’inizio dei concerti.
Ci perdiamo il primo gruppo ed arriviamo già sulle atmosfere sospese tra i balcani e Tom Waits dei The Dead Brothers, una banda vera e propria composta da sei elementi con fiati e strumenti vari. Uno dei momenti più iconici è il tributo alla terra ospitante con l’innesto di un marranzanu (il tipico scacciapensieri), che suona molto migliore dei (troppi) “minchia” del giorno prima.
I suoni variegati e rilassati degli svizzeri, lasciano il posto a quelli invece granitici, duri come li avesse prodotti Efesto in persona nella sua fucina nelle viscere dell’Etna, degli A Place to Bury Strangers. Mentre la batteria viene percossa come se dovesse essere demolita, chitarrista e bassista, chini entrambi sulle loro pedaliere, sferzano i propri strumenti generando un muro sonoro. Davanti si vede anche un gruppetto di ragazzi che pogano, cosa che deve esser piaciuta parecchio al bassista che si è dato allo stage diving, prima di dirigersi, raggiunto poi dagli altri, in fondo alla platea dove hanno continuato il concerto attaccando gli strumenti all’installazione di amplificatori di Giuseppe Orlando (la batteria sostituita da una drum machine), suonando completamente circondati dalla gente.
Giusto il tempo di riprendersi e sul palco salgono gli Spiritualized. La band di Jason Pierce, emblema dello space-rock, è sul palco esattamente come ce l’aspettavamo. A dispetto della staticità dei musicisti, sanno creare un’atmosfera che, complici i visual psichedelici che illuminavano il palco e parte della platea e la scelta di lanciare sul pubblico dei palloncini debolmente illuminati, cristallizzano il pubblico come con un incantesimo. Tutto si è come fermato tra le stelle proiettate e i lumini fluttuanti sul pubblico. L’apice di questo lungo momento emozionale lo si è raggiunto di gran lunga quando inizia Walking with Jesus, pezzo storico degli Spacement 3, durante il quale il pubblico resta completamente ammutolito come a non volersene perdere neanche una nota.
Peccato che non ci sia stata la stessa affluenza del primo giorno perchè anche questo secondo giorno è stato decisamente all’altezza.
Terzo giorno: urla e nenie
L’incredibile puntualità di un’organizzazione valida come quella dello Zanne, può non essere un pregio per i ritardatari cronici.
Un’altra volta ci perdiamo l’inizio ed arriviamo che sul palco si parla italiano.
Il cantante dei Peter Kernel parla fluentemente italiano (è svizzero) e spesso (anche troppo) interloquisce affabilmente con il pubblico. Quando invece suonano, il trio suona duro e, un po’ in prosecuzione della serata di ieri, la chitarra viene maltrattata in malo modo. La bassista, canadese, con il suo vistoso basso diavoletto (che fa sempre la sua porca figura) canta anche e chiudendo gli occhi potrebbe sembrare di sentire una acerba Kim Gordon farsi spazio tra le distorsioni ruggenti della chitarra. Un urlo finale ripetuto qualche volta chiude una prestazione tutto sommato onesta e divertente.
Chi sale dopo però fa crescere di gran lunga il livello. Gli Hookworms da Leeds, UK, sono uno di quei gruppi accomunati in qualche modo ai Tame Impala ma quando salgono dimostrano un piglio molto più duro degli australiani. Il cantante MJ con l’acconciatura da paggetto non ne vuol sapere di stare fermo tra le sue tastiere mentre gli strumenti alle spalle producono un muro sonoro decisamente imponente; a differenza dei suoni asciutti sentiti fino a questo punto nel festival, però, la psichedelia c’è e si sente (di qui il paragone con i padrini della scena neo-psichedelica), tanto nelle melodie, quanto negli effetti utilizzati da chitarre e voci.
Un set che sebbene un pelino ripetitivo ci lascia piacevolmente colpiti.
Terminato il muro sonoro, salgono sul palco i tecnici e gli stessi artisti successivi per montare la consolle e dei tubi al neon colorati, tra cui si esibiranno Luke Abbott e Four Tet.
Il primo, vuoi per il compito ingrato di spezzare la serata dopo tanti strumenti suonati e voci urlate, vuoi per un’attitudine un po’ troppo scolastica, non convince nè me, nè il resto del pubblico, che si limita ad oscillare in maniera fredda.
La platea si svuota.
Ma si riempie all’istante con il cambio in consolle. Four Tet è il motivo per cui la maggior parte delle persone sono a Parco Gioeni e la cosa la si nota perchè sin da subito la folla si fa portare dal set di Kieran che inizia e finisce con la nenia indiana dei due pezzi speculari dell’ultimo Morning/Evening.
Sembra quasi che voglia far cadere in ipnosi il pubblico per poi risvegliarlo a fine set. In mezzo però non risparmia beat decisamente più veloci che fanno finalmente muovere la platea come si deve. Peccato per un problema tecnico che interrompe per qualche minuto il set rischiando di rompere lo stato di trance, ma una volta risolto, l’inglese non fa fatica a ristabilire quel contatto con il pubblico che lo asseconda e si fa trasportare in una sorta di sindrome bipolare da Club.
Finita la serata, ci sarebbe un silent party, uno quei dj-set trasmessi in cuffia con la possibilità di scegliere tra più di un dj che ancora non ho capito bene se inserire nella categoria Trovate del secolo o in quella Cose da Nerd. Siccome Four Tet ci è piaciuto e siamo abbastanza soddisfatti decidiamo di non rischiare di passare per Nerd e terminare la serata andando a bere qualcosa all’Ostello con delle amiche conosciute poco prima.
Quarto giorno: oscurità e calore
Il quarto giorno da cartellone si preannuncia interessante già a partire da Jacco Gardner.
Per non farmi distrarre dalla bellezza (e dalle bellezze) di Catania, la decisione è stata stoica: Parco Gioeni già dalle 15.
Il caldo è inenarrabile, ma nonostante ciò una ventina di temerari skaters si sono sfidati a colpi di tricks allo skate park Gioeni per un contest organizzato in seno al festival.
Tra un grab ed un back-flip, iniziano a sentirsi le note imponenti del sound-check.
Inconfondibili i Godspeed You! Black Emperor se non altro per il volume.
Il sole caldissimo mi fa desistere dall’andare a cercare anche il contest di downhill e preferisco allontanarmi per andare a trangugiare litri di granita. Il ritorno in autobus mi ha ricordato certe foto dell’India, per la densità di passeggeri. Almeno non ci ha sbarrato la strada una mucca.
Quando finalmente il sole cala ma è ancora giorno il giovane capellone olandese Jacco Gardner, Guild acustica a tracolla e tamburello a portata di mano, nella sua figura esile sale sul palco ed inizia un live che fa nuovamente della psichedelia la sua cifra, ma stavolta nella sua accezione più Barrettiana. Per un momento il caldo sembra quasi passare. Terminata l’esibizione di questi olandesi di cui sentirete ancora parlare, è sera, ma nonostante ciò le luci sul palco si spengono.
Dalla direzione ci dicono che nè per Timber Timbre nè per i GY!BE saranno ammessi fotografi sotto il palco.
Mentre, non senza qualche timida rimostranza, io e gli altri fotografi ci allontaniamo, si capisce il perchè della scelta.
Il live dei Timber Timbre si svolge nella quasi totale oscurità. Oscurità dalla quale emergono i suoni torridi delle chitarre suonate senza risparmio di tremolo, e dalla voce incredibilmente profonda di Taylor Kirk, una specie di crasi tra Nick Cave e Matt Berninger, che canta sulle note più scure dei Calexico. Probabilmente questo è stato il gruppo che mi ha emozionato di più ed alla fine mi sono reso conto di aver gradito anche la scelta di non far fare fotografie da troppo vicino così da poter cogliere meglio le sfumature scure del concerto.
Quando finiscono il loro set io sono sotto il palco ed in mezzo alla gente si soffoca proprio; quando l’attesa si fa spasmodica dal palco comincia ad arrivare un suono cupo, sordo e fortissimo che per cinque minuti aumenta il senso di soffocamento. E’ l’inizio di un live, quello dei Godspeed You! Black Emperor, che giocherà molto con le emozioni del pubblico.
Le due batterie martellano ritmi che vengono sottolineati dai bassi (due anche quelli) e su cui le chitarre e sopratutto il violino producono melodie imponenti che non si ripetono mai, a formare uno stream of consciousness di matrice post-rock.
Dopo la prima suite di quattro brani, sono in preda ad un attacco di claustrofobia e decido di allontanarmi dal palco. Da dietro mi rendo conto che i visual proiettati sul palco derivano da quattro proiettori a pellicola, diretti da un abilissimo tecnico che è in grado di mixare letteralmente le pellicole come fosse un vj analogico. Insomma di questo conclusivo concerto ogni singolo dettaglio è degno di nota. Quando uno dei bassisti risale sul palco a spegnere l’amplificatore lasciato accesso ed urlante alla discesa della band, la folla è taciturna, non parla, come se ognuno fosse preda della propria tachicardia.
Mentre i ritmi si normalizzano ed il caldo si fa via via più sopportabile ce ne andiamo salutando Zanne.
Quando si organizza un evento per la terza volta, non si può toppare; o è una consacrazione o un fallimento definitivo.
Il mio entusiasmo sarà anche di parte, ma direi che 12000 persone in 4 giorni sono numeri più da consacrazione che da fallimento.
E così, dopo pochi giorni è arrivato questo annuncio: