Come balza evidente il fatto che non vi è
altra condizione di vita altrettanto adatta
all’esercizio della filosofia quanto questa
in cui ora ti trovi.
Marco Aurelio
“Di libri sul 2020 ne verranno scritti molti”: inizia così la prefazione di Zadie Smith ai sei “saggi personali: piccoli per definizione, brevi per necessità”, raccolti sotto il titolo Questa strana e incontenibile stagione. Poco più di sei-sette pagine a saggio, ambientati tra New York e Londra e pubblicati a luglio, sono pensati non come analisi o resoconto, ma come somma di riflessioni e sentimenti scaturiti dagli eccezionali eventi legati alla pandemia da Covid-19. Riflessioni che hanno segnato la prima parte di un annus horribilis, rappresentano l’unica cosa che probabilmente varrà ancora la pena leggere, quando tutto questo sarà finito. Zadie Smith ha destinato l’intero ammontare delle royalties in beneficenza, come avvenuto anche da noi in Italia, in alcuni casi. Ma noi ci siamo subìti l’instant book grondante ego e timori auto-conservativi prodigiosamente avvitati in tentativi non riusciti di universalità; o il soporifero diario a puntate di un’inauspicata quotidianità che fa i conti con attività semplici e relazioni famigliari insidiate dal digital divide – solo per dirne due.
Sentire il pensiero di Zadie Smith trovare la strada – mai definitiva: luminosa – come una crepa che viaggia veloce sul ghiaccio insidioso del dubbio e non tira dritto, ma ramifica, perlustra, dà fondo alle nostre esigenza sopite di esattezza, è sollievo, improvvisa certezza che l’intelligenza goda ancora di ottima salute, e spiace per il virus, ma finché c’è vita c’è pensiero. Il che sì, dona ragionevole – giacché concessa a rigor di logica – speranza. La Smith saggista, che scriva di cinema o letteratura o realtà, ha il dono di una brillante immersività, permea con tono mai retorico e acume e originalità i suoi scritti, portatori di profondità e ironia.
“Al tempo, tenevo rivolta la punta della mia paletta contro i baristi loquaci, le madri troppo cordiali, gli studenti pieni di richieste, i lettori curiosi – chiunque considerassi una minaccia ai miei piani”. Si apre con un’efficace metafora sulla “complessità e l’ambiguità del concetto di sottomissione” alla natura il primo saggio, Peonie. In una comune giornata scandita dai tempi serratissimi della vita frenetica di New York, in cui “due minuti liberi significavano un caffè macchiato”, fa irruzione il richiamo irrazionale: del rigoglio e del colore pacchiano di comunissimi tulipani dietro una cancellata immersa nel grigio-cemento della città. Un potente istinto attira tre donne di mezza età, che pure avrebbero ben altro da fare, a soffermarsi guardare quei fiori, nemmeno raffinati, ma irresistibili portatori di un dettato ancestrale: quello della natura. Era quello il giorno in cui tutti, senza saperlo, andavano incontro alla “mortificazione globale”, la pandemia virale.
“Vorrei tanto riavere la nostra vita di prima. Avevamo l’economia più straordinaria che abbiamo mai avuto, e non avevamo la morte”. È a partire dalle parole pronunciate da Donald Trump il 29 marzo 2020 che nel secondo saggio, L’eccezione degli Stati Uniti, Zadie Smith si lancia in una feroce disamina del sistema di valori promosso dalla società americana e dalle pesantissime disuguaglianze economiche e di condizioni sanitarie che la caratterizzano – alimentate da politiche spregiudicate e dalle scelte particolaristiche del suo Presidente – le cui conseguenze sono state drammaticamente evidenziate dal record mondiale di morti da Covid.
La mappa del virus nei quartieri di New York diventa più rossa precisamente nelle stesse aree che si colorerebbero se la sfumatura di scarlatto misurasse non la diffusione del contagio e la mortalità ma le fasce di reddito e la qualità delle scuole. La morte prematura non è quasi mai stata un fenomeno casuale, in questi Stati Uniti. In genere ha avuto una fisionomia, una collocazione geografica e un reddito molto precisi. Per milioni di americani, la guerra c’è sempre stata.
Nel terzo saggio, Qualcosa da fare, la Smith affronta in modo finalmente originale il tema del problema morale del tempo, in tempi pandemici. Sì, perché di crostate e impasti tutti hanno scritto e documentato sui social, così come ognuno ha rispolverato qualche talento, ma in pochi han guardato sotto il tappeto, per scoprire dove puntava l’eccedenza di tempo portata dal lockdown; su cosa lampeggiava forte l’insegna del “hic et nunc” mentre confusi e assonnati, tra vestaglie e lavori in vestaglia, inauguravamo una prossimità inedita e straniante.
Messa di fronte al problema della vita servita liscia, senza distrazioni, abbellimenti o sovrastrutture, quasi non avevo idea di cosa farmene. […] In assenza di elementi fissi, mi inventavo cose difficili da fare, o cose da cui astenermi. Limiti artificiali, e così via. Io so solo correre. Io so solo scrivere. Ideare una scaletta e poi seguirla: un giorno per insegnare, un giorno per leggere, un giorno per scrivere, ripetere da capo. Che idea arida, triste e piccina della vita. E quanto mi appare evidente adesso che le persone che amo sono nella mia stessa stanza ad assistere al modo in cui uso il tempo. In cui l’ho usato per tutta la vita.
Non soltanto è l’Amore e non il ritagliarsi una qualche forma di rispettabilità, ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Ma, sorpresona: il tempo di suo non ha proprio alcun senso se non quello che gli diamo, riempiendolo di attività che amiamo. Già sentito, d’accordo, ma probabilmente mai realizzato tanto come in questo periodo.
In Soffrire come Mel Gibson è la fatica della solidarietà a essere protagonista, o meglio quella distanza strutturale che, pur con il suo carico di sensi di colpa, ci rende impossibile vivere la vita dell’altro e sentire come l’altro sente.
Confrontando il nostro relativo privilegio con quello degli altri possiamo modificare sia il nostro mondo che quelli al di fuori del nostro – se abbiamo la volontà di farlo. La sofferenza non è così. La sofferenza non è relativa; è assoluta. La sofferenza ha un rapporto assoluto con l’individuo che soffre: non la si può mediare facilmente con un termine terzo, tipo “privilegio”.
Eppure quanto è stata dura in certi brutti giorni di cattività forzata, durante l’ennesima videoconferenza, “evitare di alzare gli occhi al cielo, ridere o vomitare mentre senti raccontare quello che per un’altra persona evidentemente è il dolore”?
E ancora: gli altri. Il paesaggio umano che compone il vicinato newyorkese in Screenshot, omaggio dichiarato a John Berger, è una miniera di storie. Le piccole consuetudini che ci legano ai conoscenti, quei codici sui quali si instaurano relazioni composte da incontri sempre uguali, gesti, frasi: non può esistere superficialità nella vicinanza, e ogni incontro è un destino in più di cui domandarsi con apprensione, se una catastrofe collettiva manda all’aria vite ed equilibri.
C’è un tipo di abitante ideale della città che vive da sempre in affitto a equo canone e sembra non abbia mai voglia di piangersi addosso, che sa esattamente quanto a lungo fermarsi a parlare con qualcuno per strada, che crea comunità senza romanticizzare troppo il concetto – e senza mai pronunciare la parola “comunità” – e che raccoglie sempre la cacca del cane, anche se è fisicamente doloroso farlo.
Barbara, una donna con un cagnolino, è esattamente questo. Ma ecco che la stessa Barbara, allo scoppiare dell’emergenza tira forte dalla sigaretta e dice a voce bassa. “Il punto è questo, siamo una comunità, ci guardiamo le spalle a vicenda. […] Non c’è da aver paura, da questa cosa ne usciremo, tutti quanti insieme”.
Ed è ne Il disprezzo come virus, un post scriptum incentrato sul tema del razzismo, che la Smith picchia durissimo sul volto vero dell’Occidente, illuminato dalla pandemia: la maschera ipocrita della democrazia giù, miseramente sepolta da istanze hobbesiane di sopravvivenza travestite da crisi. Da Dominic Cummings, il consigliere di Boris Johnson infettato dal virus che violò la quarantena la domenica di Pasqua, all’uccisione di George Floyd, soffocato dal ginocchio di un agente di polizia, che ha dato il via alla protesta Black Lives Matter: il coronavirus ci ha indicato la fragilità del sistema che plasma la nostra realtà, avvelenata di privilegi e disuguaglianze, e ci ha suggerito che il virus del disprezzo razziale resta sprovvisto di un valido vaccino.
Non hanno capitale, neanche la propria forza lavoro.
Gli si può fare di tutto.
Non possono appellarsi a nulla.
Nel 1787 negli Stati Uniti il diritto alla sopraffazione, l’oppressione dei neri, veniva sigillata in una formula, per cui uno schiavo nero valeva ⅗ di un bianco, ma ancora oggi riconoscere maggiore spazio ad altri, cedere quote di benessere, significa da qualche parte tagliare i propri privilegi.
Sono ben felici di “annerire” i loro social media per un giorno, di leggere libri solo di autori neri, e di “farsi una cultura” sui problemi dei neri, purché questa cultura non prenda la forma di bambini neri reali che frequentano le loro scuole reali.
Se l’America a novembre dimostrerà di aver appreso la lezione, con misure che già da adesso si annunciano controverse e un sistema – quello del voto a distanza – che da un lato garantisce sicurezza e dall’altro mina la trasparenza, è davvero difficile prevederlo. Se la memoria dei fatti appena passati e la conta dei morti (destinata a crescere) resisterà alla divorante fame di certezza – alla risacca che spinge la storia sempre un po’ indietro sulle proprie conquiste, per elemosinare un po’ di malsano e vecchio autoritarismo, per delegare responsabilità e restare elettori-bambini, cui dire cosa fare – il mondo di prima è chiaramente inaccettabile, ancorché irrecuperabile. Questa strana e incontenibile stagione non è ancora finita e chissà quando finirà, ma la voce chiara e illuminante di Zadie Smith è un invito a osservare, a non mollare la presa sull’attenzione.