Nel 1971, David Bowie disse a Rolling Stone, a proposito del rock di allora: “credo che debba venire truccato, diventare una prostituta, una parodia di se stesso. Dovrebbe essere un pagliaccio, una maschera come Pierrot.”
C’è una corrente di pensiero, per quanto discutibile, che considera il 1971 come l’anno fondamentale per la storia della musica rock. Semplificando all’osso, il rock’n’roll, nato come musica di evasione adolescenziale negli anni ’50 e trasformatosi in potente strumento controculturale nel decennio successivo, trova all’inizio degli anni ’70 la sua stabilizzazione in corrente artistica autosufficiente (e quindi autoreferenziale). Se il rock’n’roll deve il suo nome sostanzialmente a una metafora sessuale, nel corso di una ventina d’anni ha subito una trasformazione per cui il “roll” è scomparso, e da parola figurativa si è trasformato in concetto. Puramente materialistico all’inizio, politico/concettuale poi, estetico alla fine. Il culmine di questa evoluzione, economica ancora prima che estetica, sarebbe quindi il 1971, l’anno di Sticky Fingers, di Led Zeppelin IV (“to be a rock and not to roll” da Starway to Heaven), di Fireball, Who’s Next, tra gli altri. Classici nel senso di Calvino e Bloom, pietre miliari di un canone che è quello di una musica esclusivamente maschile, bianca, con un’estetica e un ideale sessuale ben preciso.
Il 1971 però è anche l’anno di Electric Warrior dei T Rex di Marc Bolan, epigono contemporaneo altrettanto talentuoso di Oscar Wilde; e, per tornare all’intervista iniziale, è l’anno in cui David Bowie pubblica Hunky Dory. Non siamo ancora alla svolta di Ziggy Stardust, importante per ogni discorso sul glam rock, ma un attimo prima. Hunky Dory è il disco manifesto della svolta glam di Bowie, per una molteplicità di motivi. Primo, la copertina: un fotomontaggio in cui il suo volto è sovraimpresso alla figura di Marlene Dietrich, icona del cinema sulla cui sessualità si è discusso molto (il suo amore per un’altra diva, Edith Piaf). Secondo: il trittico di canzoni Andy Warhol, Song for Bob Dylan, Queen Bitch, omaggi ad altrettanti pilastri della cultura di allora (la terza canzone è un tributo ai Velvet Underground: David Bowie, tra le accuse di vampirismo produrrà Transformer, il disco della rinascita di Lou Reed l’anno dopo). Terzo: il testo di una delle sue canzoni più apprezzate, Changes: “I watch the ripples change their size / But never leave the stream of warm impermanence […] I said that time may change me / But I can’t trace me“. In Hunky Dory il glam come lente sul mondo (non come genere musicale soltanto) trova la sua formula. Primo: la citazione e il riadattamento postmoderno di personalità/forme artistiche/pose del passato (ad esempio, il recupero dell’elemento corporeo/sessuale degli anni ’50 dopo la politicizzazione/intellettualizzazione del decennio successivo); secondo, l’eterogeneità dei riferimenti contemporanei, il costante rielaborare gli stimoli che vengono dal presente, il pastiche; terzo: il perpetuo cambiamento, il reinventarsi ogni volta in un personaggio diverso, con una storia, una cosmogonia, una mitologia diverse, prescindendo da categorie date per acquisite (come ad esempio la mascolinità nel rock all’epoca).
Yves Tumor può anche avere lo stesso cognome di David Bowie (pseudonimo a sua volta), non si hanno notizie anagrafiche certe (è quasi sicuro che si chiami Sean Bowie) . Quello che li accomuna, però, oltre a una genealogia -vera o fittizia- simile, è la sensibility (intesa non soltanto come sensibilità ma, secondo Simon Reynolds, come insieme di influenze, come poetica) di tipo glam, dove per glam intendiamo riassumendo i tre punti di cui sopra. Della persona dietro il nome si sa poco nulla; di lui conosciamo solo i suoi pseudonimi (Bekelé Behanu, Shanti, TEAMS), o meglio, i suoi alter ego, indossando i quali fa musica ormai dal 2010 (almeno) e le sue numerose collaborazioni, sia come musicista (ad esempio nel progetto collettivo C-ORE dell’artista punk e icona LGBTQ Mykki Blanco) che attore (in Silent Madness, cortometraggio del designer anglo-nigeriano Mowalola).
Per la sua ultima incarnazione, in Heaven for a Tortured Mind, Yves Tumor sceglie di vestire i panni di Pan, nel video del primo singolo Gospel for a new Century. Nella mitologia greca Pan svolge numerose funzioni: è il dio della terra e della fertilità, ma allo stesso tempo, a causa del suo aspetto caprino, certamente non attraente e anzi orrorifico (da cui la parola panico), del suo essere “monstrum”, impossibilitato a procreare per la sua stranezza. Da qui l’abuso sessuale, connotato per cui, nella tradizione cristiana, Pan sarebbe stato poi associato alla figura demoniaca di Bafometto. Allo stesso tempo, viene spesso raffigurato nell’atto di suonare e danzare, nei boschi. Una figura complessa, quindi, che incarna la corporeità, il trasformismo (è metà uomo metà capra), l’abuso, la creazione artistica, anche l’oscenità. In una parola, il caos. In un’altra parola, il glam, inteso come molteplicità di travestimenti e di influenze (d’altronde anche Ziggy Stardust era un mezzo dio, e neintemeno che Kanye West ha scritto una canzone dal titolo I am a god).
La musica di Heaven to a Tortured Mind è caotica, per due motivi: in primo luogo, le canzoni del disco presentano sempre un qualche elemento di disordine, una qualche stortura. Medicine Burn, ad esempio, viene risucchiata da chitarre noise e rumore elettronico che ne compromettono un ascolto lineare; lo stesso in Folie Imposée, che parte decostruendo il riff di Harlem Shuffle dei Rolling Stones, e va avanti coprendolo con una nebbia di voci che vanno in direzioni diverse, rendendo difficile ricostruire una forma canzone tradizionale. Oppure Asteroid Blues, uno strumentale in cui di ordinato c’è solo una linea di basso ascendente e ansiogena, intervallata da esplosioni vocali ed elettroniche che sembrano provenire da una qualche prigione segreta. In secondo luogo, il caos di questo disco è quello tra i generi. Se glam significa anche trasformismo, allora Heaven to a Tortured Mind può stare benissimo tra Aladdin Sane e Sign ‘O’ the Times. Canzoni come Gospel for a New Century o Super Stars sono esempi di glam rock mischiato al funky che rendono Yves Tumor quanto di più vicino a Prince (ma anche al Bowie di Lets’s Dance) si possa trovare in circolazione, tra falsetti, schitarrate, ritornelli killer e sample di vecchia musica dance coreana. Il lato più black della musica di Yves Tumor, quello che rimanda alla sua educazione sentimentale soul e gospel, lo si può trovare invece nella ballata Kerosene! (in duetto con Diana Gordon), o la citazione di Otis Redding e D’Angelo A Greater Love (con Hirakish). Abbiamo poi i chitarroni, riffoni e assoli hard rock che ormai sono talmente autoreferenziali che più glam non si può, in pezzi come Romanticist o Identity Trade.
Entrare nell’universo di Yves Tumor, nella sua tortured mind, significa venire bombardati da stimoli differenti, spesso anche incompatibili fra loro, all’interno di una stessa canzone. Il personaggio che interpreta in questo suo ultimo lavoro è una celebrazione del disordine, e allo stesso tempo una dimostrazione che i generi sono categorie spesso troppo nette e quindi incomplete per interpretare un prodotto culturale . D’altronde, la sua esistenza, divisa tra musica, moda e cinema, o lo stesso mistero che lo accompagna (si è favoleggiato molto sul suo orientamento sessuale, ad esempio, ma anche su dove abitasse) testimonia che la brandizzazione non è sempre l’unica strada percorribile, quando si parla di espressione artistica. In altre parole, in questo disco Yves Tumor decide di vestire i panni di una rockstar glam contemporanea, riuscendoci benissimo, in virtù del suo essere sfuggente come un serpente (un suo disco del 2016 si intitola Serpent Music), e di incasinare la nostra percezione con le sue canzoni multiformi, non-binary anche loro.