Ypsigrock | Dove il tutto è più della somma delle singole parti


Parole di Danilo Russo
Fotografie di Alessia Naccarato

 

Strade strette e ripide da consumare; un bosco per guardarsi di meno e stringersi di più.
Ypsigrock è come il pensiero felice che serve a Peter Pan per volare, il posto giusto da abitare per costruire e ritrovare i ricordi migliori, pilastri portanti del tuo personale rifugio antiatomico sentimentale. Noi che sotto i bombardamenti balliamo perché di meravigliose ferite non ne abbiamo mai abbastanza.
Trovatele voi, poi, le parole per descrivere il legame con i pezzi di quella famiglia allargata che si ritrova a Castelbuono, un po’ più vecchia, un po’ più stanca, un po’ più bella… Ogni anno più bella.
Trovatele voi perché le parole, lo sappiamo, a volte non bastano e forse non servono nemmeno quando hai la musica. Musica che, in questa edizione, è stata coerente, disarmante, ricercata: più o meno come Valerio, immancabile assente da diversi anni.
Ma chi è Valerio? Non lo sapremo mai, o meglio, io lo so ma non posso scriverlo, però posso raccontargli, se ci starà leggendo da qualche parte, ciò che anche quest’anno si è perso.

 

Giovedì 9

Ypsi comincia prima: perché non sa aspettare, perché ai suoi aficionados campeggiatori qualcosa la vuol subito dare. Il giovedì si buttano le basi, dice qualcuno, e lo si fa su un palco diventato sempre più grande, sempre più importante. Di notte, nel cuore del parco delle Madonie, Makai, alias Dario Tatoli, producer e polistrumentista, crea spazi di lontananza e dissolvenze elettro-pop-acustiche che come nebbia avvolgono l’attracco di un porto sicuro di una terra straniera tutta da visitare.
Un viaggio che continua con il delicato miscuglio jazz, neo-soul e hip-hop di LNDFK,  l’acronimo utilizzato da Linda Feki, cantautrice italo-tunisina che mette in piedi un mondo musicale contaminato dove la componente eterogena diviene elemento imprescindibile di completezza.

 

Venerdì 10

La prima tappa ufficiale è fissata nel pomeriggio, al Chiostro di San Francesco dove il palco dell’Ypsi & Love Stage ospita i Random Recipe, folk-tronica band canadese.
Si divertono e fanno divertire con la loro giostra fatta di contaminazioni funk, rap ed elettro-folk, una ricetta che di casuale ha ben poco soprattutto sentendo l’amalgama dei suoni che sono lì lì per scollarsi e viaggiare per fatti loro ma che alla fine si prendono stranamente per mano come due bambini al parco giochi.
Girls Names, rappresentanti del  noise-rock nordirlandese, trasmettono con le loro melodie enormi dubbi che sembrano sciogliersi, matasse interiori che si dipanano per farti vedere qualche luce nuova nel grigio e nel nero di suoni che a lungo andare, durante il live, diventano un po’ troppo piatti e scontati, convincendo ma non del tutto.

 

Ci si sposta nell’Ex Chiesa del Crocifisso dove troviamo il palco Mr. Y Stage.  Sarà la prima e ultima volta per questa edizione: nonostante il programma prevedesse altri due concerti in una  location che, per diversi motivi, non è stata sfruttata né valorizzata come lo scorso anno.
Gli unici ad esibirsi sull’altare sconsacrato sono stati i Blue Hawaii: tecno ambient, indie rock; il duo dal futuribile mood ipnotico, fatto di alienazioni sentimentali, di respiri prolungati e di sogni che continuano ad essere paracaduti rotti capaci di attutire le nostre cadute quotidiane.
Ed è uno show in caduta libera, tenuto conto degli enormi problemi tecnici, avuti fino a 10 minuti prima della fine che, da un lato hanno smorzato la magia dell’esibizione e dall’altro hanno fatto sviluppare nel pubblico una strana ed inaspettata forma di empatia sfociata in un lungo applauso finale.
Piazza Castello è pronta. Dal palco dell’ Ypsi Once Stage si diffonde il soul pop elettronico degli Her, ex duo francese formato nel 2015 da Simon Carpentier e Victor Solf. Quest’ultimo, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta prematuramente un po’ di tempo fa, ha continuato a tenere in piedi il progetto ed ultimato il disco uscito proprio quest’anno. Un suono ricercato, elegante, intimo, lontanissimo dalla proposta sguaiata, surreale e divertente dei Confidence Man.
Un gruppo di pazzi, di quelli che organizzano una festa a casa dei nonni invitando gli amici degli amici e facendo le peggio cose. Due voci che si alternano, Sugar Bones, (s)vestito completamente di bianco con degli hot pants a cui si aggiungono delle spalline da comandante in seconda di una navicella aliena, e poi lei, Janet Planet, vestita come una bambola gonfiabile interstellare, sfacciata e menefreghista. Dietro Clarence McGuffie e Reggie Goodchild, due cupe figure alla batteria e alla tastiera con addosso soltanto un paio di mutande e un cappello da apicoltore in lutto. Una proposta musicale dance ed elettro-rock che non sconvolge per inventiva a differenza delle loro colorate coreografie che hanno fatto ballare tutti.

 

Con AURORA,  veniamo catapultati in una radura magica di suoni synth-elettro-folk, scanditi dalla voce di una ragazzina esordiente capace di disegnare spazi infiniti e distese verdi in cui stare bene, correre e allontanare i dispiaceri. Il canto di questo timido folletto norvegese (una crasi tra Björk ed Enya) tocca vette inaspettate di purezza e candore che ci fanno pensare che forse questa scelta, per quanto azzardata, verrà capita meglio tra qualche anno.

Fresco come un fiore al mattino e lucido come un postino al suo primo giorno di lavoro, entra in scena Faris Rotter, leader e voce del gruppo più atteso del giorno: The Horrors. Un muro di suoni garage-punk-rock si schianta sul pubblico, la voce per una buona parte del concerto non risulta pervenuta, come l’udito di alcuni (s)fortunati in prima fila. I fan della prim’ora non li bocceranno ma oggettivamente potevano e dovevano dare di più, nonostante alcuni pezzi di indiscutibile bellezza che ci ricordano come dai cattivi pensieri occorra correre senza pensare al “dove” ma al “come”… Al massimo! Al massimo del dolore o della gioia e col doppio della speranza.

 

 

Sabato 11

Il terzo giorno viene aperto da Her Skin: esordiente cantautrice folk modenese, una voce delicata come una pioggia di petali e respiri leggeri, il mood perfetto per introdurre Ama Lou: giovanissima  esponente di quello che potremmo definire contemporary R&B che proprio quest’anno ha pubblicato il suo primo Ep e sul palco Ypsi & Love ci ha fatto ascoltare un po’ del cielo azzurro che si porta dentro.  Niklas Paschburg che si sarebbe dovuto esibire verso le 19 sul palco Mr.Y non arriva in tempo causa un ritardo aereo. La sua esibizione viene spostata e fatta coincidere con quella già in programma di Alfio Antico che nel suggestivo antro del museo civico di Castelbuono tira fuori una musica ancestrale che sembra ricercare l’anima del rudere in cui sta suonando evocandola nel battere del tempo passato.

 

Un’atmosfera così mistica e intima che sembra pazzesco sentire pochi minuti dopo il soul psichedelico e il punk blues degli Algiers che mantengono alte le aspettative e con la loro musica dura, rarefatta e carica di coriandoli neri e impegno politico a sostegno delle minoranze, regalano momenti unici di bellezza vera.

In che modo si affrontano i dispiaceri? In che modo si oltrepassano le delusioni? Trovando il nostro orizzonte pulito, innamorandoci delle sfumature malinconiche di una vita ancora troppo poco comprensibile. È il manifesto dei Radio Dept. una band che intreccia dream pop e shoegaze con un cantato sussurrato e una musica fatta di synth e bassi gentili, capace di avvolgerti il cuore come faceva una certa copertina azzurra con un certo Linus.
Pensate ad un robottino da cucina, quello che fa tutto: dalle ricette nuove ai grandi classici rivisitati, immaginate che quest’utensile sia alto due metri e al posto del cibo sforni delle canzoni. Si parla di Youngr: un performer puro, di quelli capaci di suonare, cantare e ballare contemporaneamente e che se ne avesse la possibilità, tra una cosa e l’altra, forse riuscirebbe a fare anche il caffè. Spettacolare da vedere e piacevole pop da sentire.
Dopo queste tre esibizioni potremmo andare via, ma i Vessels caricano i nostri corpi stanchi su un vascello d’ebano fatto di musica ambient e dream-tecno. Dove il buio è l’unica cosa certa insieme all’utilizzo di tastiere, drum machine e al viaggio mentale che questo tipo di musica può farti fare.

 

 

 

Domenica 12

A Seun Kuti & Egypt 80 tocca aprire le danze e non solo in senso metaforico. Esponente principale dell’Afrobeat nel mondo scarica il suo ritmo travolgente verso il pubblico scatenato; un safari dove i pensieri corrono selvaggi dalla testa alle gambe.
Kelly lee Owens avrebbe dovuto esibirsi nella solita chiesetta sconsacrata, al suo posto Gaika che si esibisce, per una questione logistica, nuovamente al chiostro con la sua dancehall reggae, esasperata dall’abuso d’autotune; un’esibizione che per quanto possa essere impegnativa risulta poco coinvolgente ma soprattutto non memorabile.

 

Per vedere o sentire qualcosa di memorabile occorre aspettare gli Shame. I 5 ragazzini inglesi danno il massimo sul palco ma anche fuori visto il bagno di folla cercato dal leader della band Charlie Steen il quale, a fine concerto, si getta sul pubblico rischiando di cappottarsi semi mortalmente urlando tutta la sua sofferenza attraverso un post punk che non tradisce la sua natura e pare bastare a se stesso.

I Trail of Dead che sul palco erano abituati a spaccare gli strumenti dopo aver finito di suonare, questa volta si mantengono sobri ma non perdono un grammo della loro energia. Conrad Keely e Jason Reece che si alternano fra batteria, chitarra e voce, diventano il motore di un razzo in partenza per il pianeta più caldo e sconosciuto dell’universo. L’alternative rock della band texana è epico come certi pezzi che hanno fatto tremare le mura del castello e anche qualche cuore. Arrivati all’ultimo giorno non ci sono addii ma solo grossi arrivederci.  I The Jesus and Mary Chain ci sono davvero, dopo tanti anni di tentativi e inseguimenti, e portano sul palco quelle melodie che ti fanno avvertire talmente tante mancanze da farti sentire anche pieno della voglia di mangiarne ancora di questa vita; disperatamente e con la solita domanda di sempre: è meglio cedere il passo alle cose che non si sanno affrontare o imparare a combatterle? Nelle rare giornate in cui i tuoi pensieri incontrano i suoi, la felicità sembra solo una semplice questione di equilibri e un pomeriggio di pioggia diventa il posto perfetto per riabbracciarla e regalarle un fiore che nemmeno tu speravi di trovare. L’esibizione di un gruppo così vale forse tutto il festival.

Continua a non bastare, la musica, le spinte, alzarsi al mattino con più dolori di quanto il tuo corpo possa sentirne. Continua a non bastarmi la luce che passa da quegli alberi per illuminare un viso che aspettavi di vedere o nuove mani che aspettavi di sfiorare.
È il posto che serve per dimenticare le cose brutte e confonderle con la polvere di una pineta, davanti a quel palco che ogni anno si è fatto più grande.
Il Cuzzocrea Stage, inaugurato nel 2015 in memoria di Stefano, quest’anno ha ospitato tra gli altri la musica cibernetica di Mr. Everett, il folk spaziale di quel pazzoide di Bob Log III e il dj set di Fabio Nirta e Robert Eno al loro 11esimo anno (12 sul campo) con la formula consolidata Shirt vs T-shirt: ovvero l’alternanza tra una ricerca musicale più difficile e meno orecchiabile ad una che pare il suo esatto contrario (o quasi). Davanti a quegli enormi baffi, che somigliano a due onde del mare che scelgono di incontrarsi, si accende la notte e supereroi di plastica ci salvano ancora una volta, ancora per una notte, fino al mattino. Ypsigrock è appena finito e si pensa già al prossimo e allora l’ipotesi è che si tratti di radici, quelle profondissime, capaci di svilupparsi e crescere solo nei posti in cui hai lasciato, senza accorgertene, un pezzo del tuo sregolatissimo cuore.

 

 

 

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