Che differenza c’è tra un concerto singolo, una rassegna di concerti ed un festival?
Dal punto di vista emozionale, il concerto è quell’evento della durata di una serata che inizia con la fila al botteghino, poi c’è l’emozione dell’attesa, il gruppo spalla, poi i beniamini che fanno un’ora e mezza (tre se sei ad un concerto dei Cure) di loro canzoni e poi lo sfogo delle emozioni ricevute fino a notte; la rassegna è più o meno la stessa cosa con l’aggiunta che potrebbero esserci più di un concerto interessante nel giro di poche settimane e magari la delusione di dover sceglierne solo qualcuno per ragioni di budget; il festival, bè il festival è un’altra cosa.
Sono giorni di full immersion in un evento che prende spunto dalla musica ma che non è banalmente la somma dei concerti che si susseguono. Contano moltissimo il posto dove si organizza, l’organizzazione dei “tempi morti” e cose di questo genere.
E’ per questo che quando mi sono trovato da solo ad andare all’ Ypsigrock, dopo qualche titubanza, ho accettato lo stesso; dopotutto ha fama di essere tra i migliori festival in italia e diciotto anni di esperienza ne fanno un’istituzione nel panorama dei festival nostrani, poi la line-up interessante, il fatto che si tiene nella meravigliosa Sicilia ed eccomi a prendere il traghetto a Villa San Giovanni e poi l’autostrada verso Palermo.
Mentre scorre il paesaggio arso della Sicilia centrale (ho fatto un giro un po’ lungo per arrivare a Castelbuono) non riesco a non pensare a come sarà stare solo due giorni in una situazione simile, ma prima che le titubanze abbiano il sopravvento il mar Tirreno arriva e mette a tacere tutto; solo i Beatles che ho in sottofondo (White Album, what else) riescono a scalfire il senso di meraviglia che mi attraversa, quando con il mare sempre più piccolo nello specchietto retrovisore, comincio ad inerpicarmi nel cuore del parco delle Madonìe. Dopo venti minuti circa di campagna (il mare è scomparso e lo stereo manda Everybody’s got something to hide except me and my monkey) ecco Castelbuono con la sua bella cornice di montagne.
Sono circa le 18:30 e purtroppo il live degli Uzeda al Chiostro di San Francesco è bello che andato.
Presi pass e braccialetto e data un’occhiata preliminare al palco (ed all’iconico cartello), inizio a girare il paese.
Lentamente la piazza si riempie, quando sul palco salgo i Bo Ningen. I quattro capelloni nipponici suonano fortissimo, e nelle loro tuniche nere scuotono in aria le folte chiome agitandosi come dei Power Rangers; nella platea c’è anche un cartello con tanto di scritta in giapponese retto da alcune ragazzine scalmanate.
Non ne sono impressionato.
L’umore cambia di netto quando sul palco salgono gli Archie Bronson Outfit, trio made in UK, che senza agitarsi troppo sul palco (fatta eccezione per il tastierista che ogni tanto mentre suona anche la chitarra piazza un piedone sul synth) si limitano, tra una birra e l’altra, a dare alla piazza tre quarti d’ora di granitico rock ‘n’ roll tutto garage e sostanza, complice un batterista che sembra l’incrocio di una mitragliatrice Gatling ed un orologio atomico.
Dopo tutto questo rock ‘n’ roll un paio di birre con due chiacchiere con i fotografi ci stanno, ma abbastanza velocemente (l’organizzazione è impeccabile) sul palco arrivano i Fanfarlo.
Gli inglesi (capitanati dallo svedese) troppe volte accostati agli Arcade Fire, allestiscono un live abbastanza pop (non che la cosa sia disdicevole) con la giusta dose di spettacolo (ditemi che volete, ma trovo sempre spettacolari i fiati sul palco) ed il giusto mix tra pezzi dell’ultimo Let’s go extint ed i cavalli di battaglia di Reservoir e Rooms filled with light.
Line up ultimata = fine della serata? Niente affatto!
La nottata prosegue come se nulla fosse in alta quota. L’YpsiCamping si trova a poco meno di 800 mt s.l.m. (alle 3 di notte vi assicuro che si sente) ma nonostante la temperatura affatto estiva i dj-set proseguono fino all’alba ai margini della tendopoli allestita all’ombra del bosco dell’area attrezzata e la gente che ci si ritrova a ballare sembra non far caso alla qualità a tratti altalenante degli stessi, balla e basta. L’atmosfera che si respira è molto allegra e quando l’orizzonte diventa arancione e si inizia ad intravedere anche il mare in lontananza, lascio tutti questi presi bene e decido di conservare un po’ di energie per l’indomani.
L’indomani arriva presto ma inizia lentamente, l’aria frizzante, la bella giornata, un caffè nel bosco di Ypsicamping, quattro chiacchiere con altri reduci assonnati, e poi giù in paese per l’agognata colazione. Siedo ad un tavolino nella piazza centrale del paese e mentre aspetto la mia granita al caffè con brioche assisto divertito alla compresenza di signori attempati vestiti di tutto punto che scrutano sospettosi ma anche divertiti i gruppi di ragazzi ancora assonnati dalla sera prima.
Parcheggio a fianco ad un asino che sembra attendere che qualcuno scenda a prenderlo ed arrivo giusto in tempo per rendermi conto di che miracoloso sbalzo termico ci sia tra l’afa esterna (terrificante ve l’assicuro) e la frescura che delizia il chiostro di San Francesco.
Qui è allestito il palco Ypsi&Love. Mentre si svolge il sound-check fa irruzione (pacifica s’intende) un frate che chiede di arrestare per un po’ le operazioni perchè si sta celebrando un matrimonio nella chiesa affianco; Ypsi&Love risponde favorevolmente ed è per questo che il palco apre al pubblico con un po’ di ritardo.
Sul palco, anticipati dai vincitori del concorso “Avanti il prossimo“, gli onesti The Artificial Harbor, si esibiscono gli islandesi Samaris. Si tratta di un trio composto da due donne, voce e clarinetto, ed un uomo che si occupa della parte elettronica (drum machine ed effettistica varia).
Bene ora che sia per il contrasto tra la frescura del chiostro e l’afa esterna oppure per il silenzio tombale che si è creato nell’affollato cortile, ma mi sento completamente in balia della voce algida della cantante e dell’ammaliante clarinetto che la accompagna in melodie che fanno viaggiare la mia mente tra i paesaggi di Heima.
Quando i tre finiscono ho la gola secca dall’emozione e mentre mi reidrato, mi accorgo che sono già le 8 quindi ancora sognante lascio il Chiostro, direzione Castello.
Mi resta poco per godermi lo stato d’animo e per questo al Castello preferisco arrivarci per vie traverse. Quando arrivo trovo già una marea di gente (la serata è sold out). Mi faccio spazio nella piazza gremita e guardando il palco noto la presenza di una serie di piante da appartamento dinanzi a tre postazioni. E’ il set degli M+A.
Il duo forlivese si fa accompagnare alla batteria da Marco Frattini proprio come a Glastonbury e proprio come lì tirano fuori una performance di altissimo livello. Non è frequente che il pubblico balli con intensità già all’apertura del palco, specie sapendo cosa li aspetta, ma questo sembra non esser valido per i tre in questione che con un set tiratissimo mettono gran parte del bel disco d’esordio (These Days) ed anche pezzi ancora inediti (come questa Bouncy).
Dietro il palco incontro anche i forsennati ospiti di una casa di accoglienza che affaccia proprio sulla piazza che con le faccie contente muovono il culo esattamente come tutti qui.
Peccato che per esigenze di scaletta finiscano di suonare presto, non che l’arrivo di Forest Swords mi sia sgradito. Il producer di Liverpool, accompagnato da un bassista barbuto, crea una dissonanza incredibile. Alla solarità danzereccia di prima oppone un live etereo e scuro di assoluta eleganza. Le persone che mi sono attorno restano sballottolate come da un colpo di frusta emotivo. Quelli che prima ballavano ora fissano il palco e si muovono lentamente. La musica di Forest Swords è ipnotizzante, letteralmente un viaggio onirico.
Dopo il tentativo di fare un po’ di fotografie (ardua impresa con un live così scuro, se non per i braccialetti gialli che risplendono nel buio) preferisco andarmi a mettere nelle retrovie dove ci sono tutti i rilassatissimi viaggiatori (tra cui anche questa splendida bimba sulle spalle del papà con le sue cuffione gialle).
Sulla stessa scia apre il suo live Sohn. Palco scuro, suoni morbidi e lui che incappucciato come un oscuro folletto detta il ritmo delle oscillazioni che vedo compiere all’unisono alle teste in piazza. L’empatia è fortissima e il tedesco con la sua scaletta in crescendo sa essere (compito arduo visto l’accostamento) il giusto trait d’union tra i suoni trip hop di Forest Sword e l’elettronica dei successivi Moderat.
A dire il vero prima che i tre salgano sul palco passa circa un’oretta, ora in cui l’attesa della piazza diventa elettrica, ma non fastidiosa. Nel frattempo vengo raggiunto da tre amici fotografi venuti apposta per i berlinesi.
In questa oretta mi capita anche di parlare con un fotografo castelbuonese, un uomo di mezza età che mi racconta un po’ del festival, del fatto che alle origini era gratuito e campava di sovvenzioni pubbliche, ma che da un certo punto in poi si è deciso di affrancarsi dai soldi pubblici iniziando a campare di sponsor, biglietti e tanto volontoriato attivo; mi diceva di circa duecento ragazzi del posto che piano piano hanno fatto crescere l’evento, non senza difficoltà, ma con una passione e una tenacia fuori dal comune rendendo Castelbuono un posto in cui possono suonare i Moderat, ma anche tanti altri nomi di altissimo livello “anche se io non ne capisco di questo rock” (immaginate questa frase pronunciata con un forte accento siciliano). Insomma un bel motivo d’orgoglio per gli abitanti di un paesino siciliano di montagna.
“MODERAT is a very dark show, for everyone’s enjoyment please do not use any kind of flash or light for filming“.
Ciò che è venuto dopo è stato uno spettacolo di suoni ad altissimo volume (quando ho incautamente poggiato un obiettivo sul subwoofer, me lo sono ritrovato sparato a terra dalle vibrazioni) e di visual made by Pfadfinderei da lasciare a bocca aperta. Al di là dei momenti della foto che i tre stanno facendo da tutti i palchi su cui si esibiscono e di qualche altra parola spiccicata in italiano, i tre sono un fiume inarrestabile e il luogo in cui si esibiscono rende il tutto ancora più incredibile.
So solo che dopo i bis, mentre la piazza saluta così il trio (vedi sotto), io capisco che non ho più voglia di ascoltare nulla, come a voler conservare l’eco di quello che ho sentito e così decido di disertare i dj-set ad Ypsicamping, anche se l’indomani non potrò rimanere per la serata conclusiva.
Quello a cui ho assistito è stato un festival con una line-up di livello internazionale, ma questo non basta; la cosa straordinaria è che, come ancora non mi era capitato di vedere in Italia, l’evento è perfettamente integrato con il posto in cui si svolge. Questa (difficilissima) cosa fa sì che nei giorni dell’evento si respiri un’aria di estrema apertura che di fatto rende gli Ypsini non dei semplici appassionati di musica, ma dei concittadini. Per tre giorni insomma gli organizzatori non si sono limitati a mettere insieme gli artisti più o meno interessanti, ma hanno costruito un’esperienza a tutto tondo, senza eccedere in paroloni (tipicità, enogastronomia, ecc.), ma mirando all’essenziale e (a quanto ho sentito delle edizioni precedenti) mantendo un certo standard. Mentre rifletto su queste cose, il garzone in uniforme del bar mi porta l’ultima granita con brioche.
Guai a descrivere l’Ypsigrock come la semplice somma dei suoi concerti!