Gli indiegeni di Ypsigrock Festival

foto a cura di Daniele Mancino

Le storie che si narrano sull’Ypsigrock Festival – alla sua diciassettesima edizione – non possono essere comprese a pieno fintanto che non si respira dal vivo la magica atmosfera del Castello di Castelbuono (PA). Se è vero che “a festival is a state of mind”, ovvero un modo di incrociarsi e un viatico per un’esperienza, una sorta di rituale in fondo, questo vale anche per l’Ypsig: è bello essere in Italia e vivere dal vivo la musica indipendente internazionale. Inoltre è tutto organizzato al meglio delle possibilità, il Castello è spettacolare, se guardi in alto ci sono le stelle, nonostante quest’anno sembra esserci la maledizione della pioggia, che a tratti in realtà diventa una benedizione per il divertissement del pubblico, quasi gasato dagli scrosci dei primi due giorni di live. “È la prima volta che succede e ci siamo trovati impreparati”, dicono dall’organizzazione. Così, dopo una prima serata rigorosamente fradicia, alla seconda tutti sono già più organizzati a combattere la pioggia infame: durante il live di Holy Other un gazebo d’occasione copre lui e gli strumenti alla prima minaccia del cielo, e pure il pubblico ha trovato e comprato ombrelli e k-way, maglioni e cappucci.

Shout Out Louds
Efterklang

Il cielo resta magico nonostante tutto, spettrale e luminoso assieme: in realtà le nuvole arrivano sin dalle sette della prima sera lasciando presagire il peggio, ovvero i temporali che ci perseguiteranno per tutta la notte. Ma la Sicilia è così bella che chissenefrega, e il Festival si deve seguire anche sotto la pioggia. Per questo siamo e saremo tutti d’accordo a un elogio imprescindibile degli Shout Out Louds e dello show must go on con cui continuano a dar voce a casse e strumenti sotto la pioggia in un live memorabile: ci saranno stati due, tre temporali durante la loro esibizione, e ad ogni acquazzone il gruppo svedese continuava a caricarsi indemoniato, facendo ballare la folla. Siamo alla dimensione del live che ci piace, quella sciamanica: il gruppo che dal palco trasmette la carica giusta agli aficionados, sfidando il pericolo di suonare sotto tutta quell’acqua, senza nessuna copertura. Vera e propria lezione di come si tiene il palcoscenico. Pure il pubblico non si lascia spaventare dalla maledizione della pioggia, anzi ne resta sedotto: si sbatte e continua a lasciarsi trasportare. Chi si era emozionato per la voce di Casper Clausen degli Efterklang, che avevano affrontato soltanto quello che si dice uno “schizzichio” leggero di pioggia, trova nella carica di Adam Olenius la benzina per sopravvivere al maltempo: non puoi andare via, muoverti da sotto quel palco, sarebbe una pazzia. Qualcuno aveva tirato fuori l’ombrello dalla shopping bag già sugli Efterklang, che con la loro folktronica a tratti progressive ci preparano al delirio con cui gli Shout Out Louds suonano dal vivo i pezzi del loro ultimo disco, quello del ritorno, Optica. C’è tempo anche per una cover degli LCD Soundsystem, mentre la tastierista copre la tastiera e ripara la birra (sacrale) prendendo in mano un tamburello. A chi era piaciuto Optica su disco non può che trovare conferma nel live, con quei suoni ancora più corposi e balladpop style, pezzi come Glasgow diventano trascinanti.

The Drums

Per questo accogliere i The Drums come headliner della serata diventerà meno facile: subito dopo il live degli svedesi il pubblico si disperde, scappa dalla pioggia fuori dalle mura del Castello e invade il corso centrale, i pub, i bar, va a bere, e si domanda se la band di New York avrà le palle di esibirsi o meno. In fondo la pioggia è già una costante. Annulleranno o resisteranno? Trascorre un’oretta di dubbi, ma alla fine i Drums escono sul palco, ed è subito lampante la differenza. Cacofonicamente smithsiani, con quel retrogusto inglese da band pop fichetta, sul palco è tutta un’altra storia: persino i consacrati successi della band americana (Money e Days) escono loffi, e senza mordente, così quello che rimane nei ricordi è solo il fascino discreto (?) degli skinny pants del biondo vocalist che sognava di diventare Morrissey, ma non era neanche nato in Inghilterra. Pare che persino loro si accorgano della differenza quando dal palco si sprecano in un elogio a chi ha resistito a suonare sotto l’acquazzone.

La serata finisce più tardi del previsto, ma poco male perché per la notte di San Lorenzo si prevede naturalmente pioggia a catinelle, rimandando il verso ed uscimmo a riveder le stelle per altre giornate. Le promesse di pioggia stavolta non mantengono le aspettative, ed è strano contaminare un report di previsioni metereologiche, quasi come inserire mood astrologici in una monografia, ma stavolta non si può mica prescindere dal tempo: raccontiamo di giornate calde all’aperto, dove il pensiero del se pioverà può mettere a rischio l’esibizione di un gruppo. Ad ogni modo il cielo si schiarisce, e nel Chiostro di San Francesco – che è il nuovo stage pomeridiano, un aperitivo di concerti – fa quasi caldo, tanto che volano le birre. Ypsi & Love è il motto che campeggia sul palco montato nel Chiostro, e alla luce del sole si può godere dello sterminato panorama hipster al sapore di tatuaggi à la joy division che affolla lo spazio, ma anche no. Sembra Europa, è Castelbuono, ovvero Europa. Indie-chic e indie duri e puri si godono l’apertura dei live con i Black Eyed Dog, di cui avevamo sentito parlar bene a proposito dell’EP Early Morning Dyslexia, e che in effetti nella dimensione sonora dal vivo ci sanno fare, con suoni psichedelici mischiati alla vecchia scuola rock (con incursioni di mandolino elettrico). A volte hai bisogno di spruzzate di puro rock’n’roll così dritte in faccia, si fa in tempo a sentire sonorità che ricordano qualcosa che a tratti si fa psych e poi anche stoner. E sono italiani: è questo il bello di un Festival, la possibilità di scoprire qualcosa di piacevole per caso. I Black Eyed Dog (che prendono il nome da una ballata di Nick Drake) aprono la scena all’elettronica a colpo sicuro di Depforth Goth, che sulla carta si propone come un James Blake più o meno R&B, ma la voce strascicante e lamentosa di Blake non ce l’ha (per fortuna?!), e si lascia passare bene nel sottofondo di qualche colpo di coda di pioggia, mentre il sole sta per calare. Poco intenso, ma godibile, mentre sorseggi qualcosa, e ti prepari alla serata elettronica che aspetta al Castello. 

 

In alcuni locali della piazzetta di Castelbuono è possibile ascoltare Metz e Local Natives mentre bevi qualcosa prima dell’inizio dei live, peccato che per i Black Eyed Dog si sia frainteso e qualcuno metta il pezzo originale di Nick Drake. Incroci venditori di ombrelli, accorsi in paese all’occorrenza, le signore dei negozi intanto smerciano k-way, e non sono rassicuranti: “dicono che pioverà”, ma c’è chi resiste alle minacce e pensa che in fondo è Agosto, e anche se piove poi deve far caldo per forza e quindi nevermind. Quando arriva Holy Other tuttavia il cielo si adombra, e al primo sorso di pioggia da bere sotto il palco, i gazebo improvvisati dell’organizzazione vengono montati al volo a coprirlo mentre suona elettronica. Tutta quest’operazione affascinante in parte oscura la musica vera e propria, e di Holy Other resta davvero poco nell’alito di vento del Castello. Il pubblico sta aspettando i Suuns, autori di uno dei dischi dal sound più originale del 2013: Images dur futur. Loro sono canadesi, per dimostrare ancora una volta che il Canada è una terra originale (“I drew a map of Canada, oh Canada”), e hanno avuto un 5.0 su Pitchfork per l’ultimo lavoro, cosa che dimostra quanto esistano nella critica musicale le mezze misure: tra gli elogi osannanti e le stroncature decise, per i Suuns non sono esistite mezze stagioni (tant’è che pioverà anche su di loro). Il live parte veramente intenso: la batteria è scatenata, e il rumore che ne viene fuori ci emoziona sotto il palco, pare esserci qualcosa di fisico in questo modo di mordere la musica. Fino a 2020 tutto è rumorosamente forte, poi qualcosa succede, e i più critici dicono che sia tutto uguale, persino Edie’s Dream Holocene City paiono confondersi nelle loro reciproche umane sfumature, o forse è colpa della solita interruzione del maltempo. Nonostante tutto si sente che i Suuns sono carichi, belli tosti dal palco, e piacciono per questo (anche se qualche report di costume ha storzellato il naso in proposito). Il punto è il solito: hai amato una cosa su disco e cerchi di ritrovarla uguale nel live, ma non è sempre così per fortuna, altrimenti sarebbe una noia bestiale.

Erol Alkan

Ci prepariamo al festino electro-dance di Erol Alkan, quello che nella mente degli indiegeni di Castelbuono ha trasformato la seconda serata in eletthonika!, per esempio quel ragazzo del bar dei vicoletti che ha preso il biglietto per venire a ballare con tutti quelli che sono accorsi qui dal resto d’Italia. Lo scenario si fa subito caldo, e non c’è nemmeno la pioggia stavolta: solo mani alzate in aria e movimento, danze diverse che si inseguono sin da sotto il palco fino agli scaloni che portano su al Castello. Ma chi è questo dj turco che si esibiva nei club di Londra?e perchè fa ballare un popolo generalmente ritroso all’epica da discoteca? È stato lui a lanciare il Trash a Londra, un nightclub (parola quasi misconosciuta nelle nostre zone!) che ha ospitato – tra gli altri – Bloc Party, LCD Soundsystem, Yeah Yeah Yeahs. È in questo humus londinese che nasce quella cultura indie-dance che arriva fisicamente in un paesino sulle alte colline della Sicilia. “I’ve always felt that I had to try to be the best DJ I can be, not the best DJ compared to anyone else”. Questo è il mescolamento e l’incrocio di contro-culture che capita in metropoli come Londra. Sia chiaro che dovrà arrivare il vento anche qui. E così c’è chi continua la festa fino al camping dell’Ypsig, scenario delle notti insonni.

Indians

Il terzo e ultimo giorno l’attesa cresce per gli Editors: ovvero si respira un clima in cui si sente che ci sono persone accorse apposta per il concerto della band di Tom Smith, anche se in realtà il miglior concerto della serata (e forse dell’edizione dell’Ypsig, se togliamo il cuore degli Shout Out Louds) sarà quello dei Local Natives. Si comincia al Chiostro, sotto un sole che finalmente è così coraggioso da restare, antipasto servito al gusto di UnePassante più Indians. Giulia Sarno aka UnePassante l’avevamo già sentita, e si conferma a questo giro con la sua elettronica cantata che coinvolge il pubblico sparso del cortile di Castelbuono. Dal palco ci dice che è da anni che frequenta il Festival siciliano come ascoltatrice, ed essere sul palco diventa allora ancora più bello. È un vero e proprio refrain di queste giornate quello di dedicare dal palco un pensiero al contesto siciliano, ogni gruppo sembra davvero impressionato, ma è uno degli effetti collaterali che provoca l’Italia. C’è spazio per ascoltare i pezzi di No Drama, una versione più spogliata di elettronica di Seesaw (non al livello acustico della nostra blogoteca indiependente), e una bella versione scura di Oh My Monster. La rossa apre la scena a Indians, che con un medaglione al collo ci affoga di altri sound elettronici. Somewhere Else è uno di quei dischi controversi, dai tratti acustici ed elettronici di cui non si riesce a ricavare bene la dimensione nel live. Così i pezzi sembrano più freddi, anche se su I Am Haunted l’effetto diventa coinvolgente.

Metz

Il graffio arriva coi Metz, canadesi (pure loro) di casa Sub Pop, che hanno esordito nel 2012 col disco omonimo Metz. Il concerto dura poco, perchè pochi sono i pezzi, e la band è giovane nell’ambiente, tuttavia l’effetto che fa è un mescolamento dei primi Nirvana fase Bleach, hardcore gridato, Mudhoney, e furia da pogo sotto il palco (che in realtà poco si concretizzerà, eccezion fatta per pezzi più duri come Get OffWet Blanket). Certi dischi vanno presi come un unicum che continua, perchè c’è poco di melodico nelle corde dei Metz, sono spuri urlatori da scena che buttano casino dal palco, ed è una bella parentesi quella che ci apre a Rover. Ora, passare dalla carica adrenalinica dei Metz al sofismo di Rover è veramente dura: c’è un modo di mescolare i suoni che fa il cantautore francese che risulta abbastanza pesante alla lunga, e c’è veramente la citazione della qualunque (dai gruppi emuli dei post-’80 stile Interpol al sound più pop alla ricerca raffinata di voce). Obiettivo dichiarato: diventare uno chansonnier, come Serge Gainsbourg, però cantando in inglese (è tutto scritto in quella copertina oscura dell’album, che sta a metà tra un ritratto di Oscar Wilde e un chiaro disegno di post-francesità). C’è addirittura il tempo musicato di intonare falsetti, e poi tornare ad atti di pura emulazione per Paul Banks (e di Banks ce n’è uno). Ma la vera sorpresa sono i Local Natives, che diventano una sorpresa anche per quelli che li hanno adorati nell’ultima fatica Hummingbird.

Local Natives

Bravi fino a far stancare della loro bravura, i californiani fanno arrossire i provetti suonatori con quel modo di incastrare gli strumenti tra loro e far uscir fuori un disco che è uno dei masterpiece di questo 2013. Sin dall’inizio è chiaro che sarà uno di quei concerti che riservano il piacere della pelle d’oca sulle braccia, qualunque cosa tu abbia in testa, e se ne hanno a bizzeffe di cose in testa in certi casi. C’è un modo nel cantato del gruppo che è tipico delle vecchie band fricchettone californiane, e che si sono poi trascinate dietro progetti come i Fleet Floxes e i Grizzly Bear, e che dal vivo ha un effetto ancora più immediato: i cori diventano un marchio distintivo, nient’affatto stancanti come può capitare a chi è abituato ad associare il concetto di coro alla Chiesa e alle sue derivazioni. La cosa bella è il modo in cui tutti i membri appaiano quasi intercambiabili tra loro, si scambiano gli strumenti, e si lasciano reciprocamente la scena, il tastierista va alla batteria e poi la chitarra, e via dicendo; la cosa bella sono anche gli assoli di stile, mai noiosi come potrebbe essere l’assolo di uno stanchissimo Clapton. Taylor Rice, che ha sicuramente la faccia più conosciuta del gruppo per quel suo baffetto un po’ hipster un po’ Chaplin, non è mai da solo; gli fa da spalla fidata Kelcey Ayer. Così è ovvio che i pezzi ne escano corposi, e che su Ceilings capitino i brividi alle braccia violenti (“I haven’t stopped your smoking yet/ So I’ll share your cigarette / Just to feel it in my fingers“); e ancora su You & I ti colga un qualche afflato di piacere. Hummingbird è un disco nato anche grazie alla produzione di Aaron Dessner dei National, e che regala colpi di classe l’uno dopo l’altro del genere Breakers, o Heavy Feet. Con questo bel sapore in bocca ci si prepara a quello che tutti stavano attentendo, si parli in particolare di gruppi di persone sparse nel pubblico che non sapevano neanche dell’esistenza dei Local Natives fino a pochi minuti prima, e che piuttosto gridavano a Kelcey Ayer di cambiare la camicia troppo colorata oppure intonavano cori in attesa di A ton of Love. Agli Editors capita la serata facile, quella del non ha piovuto, così Tom Smith può rigorosamente fare il fico ed uscire sul palco con un gran gioco di luci e il colletto di una giacca alzato.

Editors

 

Del nuovo lavoro degli Editors si era fatto a tempo a parlare abbastanza male in giro, The Weight Of Your Love pareva non essere piaciuto proprio a nessuno: e allora che ci fa tutta questa gente qui a sentire gli Editors che si sbattorno, a tratti ricordando un mega concerto degli U2? Ci fa che poi alla fine Tom Smith e compagnia sono bravi a fare spettacolo, e hanno scritto quei bei pezzi riusciti che oggi tutti cantano ancora: e stiamo parlando di MunichPapillon (che a dire il vero, in quest’occasione, è venuta piuttosto moscia), Smokers Outside the Hospital Doors, o il personalissimo favorito, The racing rats. Ovvero hanno beccato alcune melodie, su cui poi hanno costruito dei successi anche ballabili: per dirne una, Papillon versione acustica resta un pezzo meraviglioso, su cui poi si è creata tutta una struttura dance di sovrafondo. Già a cavallo tra i due dischi di successo degli Editors, An End Has a Start e In This Light and On This Evening, il passaggio da intenti più dark a qualcosa di più dance era stato chiaro, ma nell’ultimo lavoro Tom Smith sfora, e va altrove verso gli orizzonti di pezzi da far cadere le braccia. Li riconosci tutti, quelli nuovi, nel mare magnum dei vecchi successi, e ti dici: “ma anche questo è un nuovo degli Editors?!si sente proprio!”. Detto questo, sono bravi, e al limite del voglio-i-tappi-nelle-orecchie sulle cose nuove. Più spettacolo che musica, ma onore a Tom Smith per la macchina che ha messo in piedi.

Piccole curiosità dal dubbio interesse: 

– La ricotta e il gelato al pistacchio di Castelbuono sono la giusta carica per iniziare la giornata. In compenso, nonostante quello che i Local Natives hanno detto dal palco, non sanno fare le pizzette.

–  Il castello di Castelbuono ha una via sotterranea segreta che lo collega al Chiostro di S.Francesco: quindi teoricamente ci si poteva spostare tra gli stage con le torce sottoterra. Peccato che ormai è chiusa.

– I Metz hanno smarrito i loro strumenti all’aereoporto: per fortuna i Suuns si sono trattenuti e gli hanno prestato tutto l’occorrente per il concerto.

– Come dicevamo, i Suuns si sono trattenuti per ascoltare la terza serata di concerti: alla domanda “vi sono piaciuti i Local Natives?” hanno risposto che gli hanno fatto cagare. Ma loro sono abituati a queste uscite.

– Spotted durante i concerti: Colapesce, Niccolò Carnesi, Arisa e Giuseppina la panettiera.

– Nella stanza accanto alla mia, il caso ha voluto sistemare colui che curerà il report dell’Ypsig per Rolling Stone. È stato lui a dire che ho fatto bene a perdermi il nuovo gruppo di Dimartino, gli Omosumo. Gli crediamo sulla fiducia allora.

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