Fotografie di Alessia Naccarato
Quest’anno a Ypsigrock ho portato qualcuno.
Non mi piacciono molto i racconti o gli articoli legati troppo alla persona, quelli che iniziano con una sfilza di fatti personali di cui chi legge può fare volentieri a meno. Allo stesso tempo penso che raccontare Ypsigrock senza raccontare anche quello che ci succede a Ypsigrock, quello che questo festival riesce a dare a chi si trova a vivere tra le strade di Castelbuono in quei giorni, vuol dire allontanarsi dal difficile obiettivo di restituire un’immagine del festival il più autentica possibile.
Allora sì, quest’anno ho portato qualcuno a Ypsigrock perché chiunque abbia vissuto a Ypsigrock non può che tirarci dentro anche le persone a cui vuole bene. Per strappare biglietti e abbonamenti, certo, e ripagare in termini di partecipazione l’impegno gigantesco dello staff che ci sta dietro, ma soprattutto perché, come dicevo, vivere Ypsigrock è una panacea in formato di quattro giorni di musica.
Quest’anno poi ci siamo impegnati. Come ha detto Martin Lippert nel secondo dei talk previsti la mattina, un talk incentrato sulle possibilità di fare cultura in modo indipendente e sostenibile, “it takes time”, ma questa edizione ha fatto il botto. Full pass terminati con largo anticipo, tutte le date sold out in prevendita. Insomma, il nome di Ypsigrock gira con le sue gambe per fortuna, ma anche noi siamo stati un po’ bravi a fare passaparola, a allargare la famiglia. A trasmettere il verbo della Ypsiness.
Purtroppo non ho l’esperienza ventennale dei veterani di Ypsi, che possono raccontare esperienze di act passati ormai non più rivivibili per la dura (ma giusta) legge dell’Ypsi Once (si può suonare a Ypsigrock solo una volta, quanto meno con lo stesso progetto musicale), ma ho un numero sufficiente di Ypsi alle spalle per potermi rallegrare della riapertura come venue della ex chiesetta del Crocifisso. Quest’anno la temutissima in quanto afosa chiesetta sconsacrata è stata lo scenario di The sound of this place, residenza artistica che si tiene a Castelbuono prima del festival per poi presentare durante questo il risultato. Quest’anno a regalarci la loro visione di questo magico posto sono stati: Marie Davidson, la performer Dana Gingras, la lighting design Lucie Bazzo e la video artist Francesca Fabrizi. Una residenza che quest’anno ha abbracciato più arti, tra danza ed elettronica, in grado di battezzare il festival in modo molto emozionante.
Se c’è una cosa che apprezzo molto di Ypsigrock è la volontà di valorizzare tutti gli artisti e le artiste senza distinguere tra “gruppi di apertura” e headliner. Come ho letto una volta in un commento di Marcella Campo “questo è un festival”, scritto come invito a non presentarsi solo in prossimità di un determinato live, ma di guardare tutti e tutte. È vero che poi nei fatti ci sono minutaggi e palchi più piccoli e palchi più grandi, ma ogni performance merita attenzione perché dopo i grandi nomi catalizzatori di pubblico ci sono sempre l’attenzione e la ricerca di una direzione artistica pronta a scovare le sorprese che il panorama internazionale ha da offrire.
È così che i tanti attesi Verdena, con loro nuovo album Volevo magia e qualche chicca storica pronta per il karaoke, sono saliti su un palco tenuto caldo dai fortissimi Thus Love, i tenerissimi Pale Blue Eyes e il “fra” un po’ maledetto (e forse l’unico un po’ sottotono) Ekkstacy.
Come dicono in tanti, Ypsigrock è un festival “a misura d’uomo”. Quest’anno per i posti migliori – la transenna, le prime file delle scalinate del castello – forse c’era addirittura qualche minuto di fila da fare, ma comunque piazza Castello è quella lì, e ovunque si è si sta bene. Anzi, ogni postazione ti dà una prospettiva speciale a modo suo. Prima quindi di andare su e guardarmi la piazza e i Verdena dall’alto, sono stata tra le prime file vicine al palco. Quello che ha sorpreso me e alcuni membri della mia famiglia eletta di Ypsi, è il riconoscere tra i contendenti della transenna una platea di pubblico molto varia. Da una parte una frangia più attempata – diciamocelo – di fan della band italiana della serata; dall’altra freschi giovincelli della generazione zeta nati probabilmente in un millennio diverso da quello di chi scrive. Questo scenario si è poi riproposto tutte le sere.
Ypsi strega proprio a qualsiasi età.
Il secondo giorno di Ypsi è quello che ci porta alla routine piena a cui siamo abituati.
I live pomeridiani nel chiostro di San Francesco sono sicuramente più contenuti, ma non meno caratteristici del festival e magici a loro modo. Il sole che cala, il banchetto Molinari (sponsor del festival) da cui abbeverarsi per l’orario aperitivo. Sono insomma i live del chill, quelli che un po’ ci scaldano prima della serata. Da evidenziare la coinvolgente King Hannah, la delicatezza di Helen Ganya e l’energia esplosiva di Noisy capace anche di azzardare un crowdsurfing!
Ypsigrock è il festival dei nomi più attesi, ma anche quello delle band meno note ma a cui finiamo inevitabilmente per affezionarci (prima, durante la fase di studio della playlist, e dopo al termine dei loro live). È anche però il festival di un certo tipo di abitudini e di rituali che si ripetono. Come dicevo, non ho molte edizioni alle spalle, ma per quello che ho potuto vivere finora c’è sempre stata una serata un po’ più danzereccia. Quest’anno animata dagli HV0B – duo di musica elettronica austriaco – che ci hanno fatto scendere tutti giù in piazza a ballare. E poi i The Comet is Coming con il loro jazz forsennato e psichedelico in grado di stordirci di suoni e stimoli fino a tarda sera.
Uno dei concerti più attesi del festival erano sicuramente gli Slowdive. Negli anni Ypsi ha realizzato molti dei sogni dei shoegazer, presenti nel pubblico con le loro magliette identificative. Gli Slowdive non hanno bisogno di presentazioni e – so che si dice spesso per molti aspetti del festival – ma è stato un concerto di più di un’ora e mezza che ha lasciato a tutti noi qualcosa che non si può spiegare né capire se non ci si è stati dentro. Ho già raccontato in una storia su instagram questa storia un po’ melensa. Ecco qui di ritorno i miei fatti personali, ma questo è un momento della mia vita un po’ delicato. Con l’arrivo dei trenta mi sto ponendo molte domande sulla mia vita, le strade percorse e quelle perse (l’universo e tutto quanto). Sono insomma un po’ melanconica. A un certo punto abbandonando le prime file ai più resistenti, sono andata a mettermi su, perché ho un’età ma anche perché mi piace guardarci dall’alto. Mi sono seduta e qualche secondo dopo è partita When the Sun Hits e sono scoppiata in lacrime. E ho pensato che forse la felicità non ha bisogno di strade intricate e missioni impossibili, forse la felicità è tutta qui, era tutta lì, in noi che insieme stavamo vivendo quel momento. Il futuro è già nostalgia, ci ricorda il claim del festival, ma il presente tra le strade di Castelbuono è una fucina di ricordi preziosi da conservare con cura.
Saltando poi all’ultimo giorno, forse quello più solido dal punto di vista del livello generale, a meravigliarci ancora una volta sono stati Panda Bear e Sonic Boom. Il duo ha suonato praticamente l’intero album Reset, regalandoci sul finale un paio di cover. Il tutto avvolto in una psichedelia di suoni, immagini e visual. È strano da dire dopo il mio paragrafo sugli Slowdive, ma il mio concerto preferito di tutto il festival.
A dare l’ultimo scossone all’Ypsi Once Stage poi gli Young Fathers. Cantanti, musicisti e performer pazzeschi che ci hanno ridato adrenalina lì dove la tristezza della fine stava per avvicinarsi. Non sono mancati anche i messaggi politici contro il razzismo e in favore dell’accoglienza. Se dovesse capitarvi l’occasione di partecipare a un loro concerto, non lasciateveli sfuggire.
Ho saltato qualche band in questo report, mi scuso con gli artisti non citati. Però non volevo dilungarmi troppo e avevo fretta di tornare a noi. Sono mancate anche le citazioni al panettone, a Castelbuono, piccolo borgo nelle Madonie che riesce a contenere qualcosa di così potente, ma questo lo trovate in tanti report, anche nei miei precedenti degli ultimi anni.
Come dicevo all’inizio, quest’anno a Ypsigrock ho portato qualcuno. C’erano anche un paio di amiche venute per la prima volta dalla Lombardia. È stato unire due mondi, i volti amici che ritrovo ogni anno e che considero un po’ la mia Ypsifamiglia, a persone nuove che si innamorano del festival come è inevitabile che sia.
Quest’anno ho portato qualcuno e quel qualcuno alla fine si è emozionato. All I want for Christmas sparata da Fabio Nirta ci faceva cantare, mentre ringraziavamo tutte le persone dietro Ypsi salite sul palco a prendersi giustamente il loro momento, e quel qualcuno aveva gli occhi lucidi. E poi ha corso come un pazzo insieme a tanta altra gente sulle note di All My Friends degli LCD Soundsystem, in una piazza che iniziava a svuotarsi. Where are your friends tonight? Eravamo tutti lì, e non vediamo già l’ora di ritornare.
Il futuro è già nostalgia.