Yo La Tengo – There’s a Riot Going On

Nel 1700 il filosofo Giambattista Vico ipotizzò una teoria secondo cui la storia segue dei corsi che tendono a ripetersi in modo simile ma sempre diverso in quanto includono al loro interno il passato. La teoria prevede, dunque, una storia vista come spirale ascendente, come un ciclone, sempre più grande man mano che si sale verso la cima. Più grande perché deve contenere tutto ciò che c’è stato prima.

Perché questo preambolo filosofico? Perché i corsi e ricorsi storici si verificano anche nel mondo musicale. Il periodo storico che stiamo vivendo non è particolarmente felice. Razzismo, divisione, odio tengono banco sui notiziari e la musica non sembra rimanere indifferente a tutto ciò; basti pensare all’esempio di Kendrick Lamar o di Roger Waters. Era un periodo di tensione quello durante il quale gli Sly & the Family Stone scrissero There’s a Riot Goin’ On. Era il 1971 e imperversava la guerra in Vietnam. La band tentò, a suon di groove e irresistibili brani, di sollevare la questione per far riconoscere al mondo ciò che stava succedendo.

Il ricorso storico arriva dopo appena 47 anni e gli Yo La Tengo, trio statunitense tra i più importanti sulla scena dell’indie rock, pubblicano un album quasi omonimo (fatta eccezione per l’elisione): There’s a Riot Going On.  La storia degli Yo La Tengo, spesso abbreviati in YLT, nasce a metà degli anni ’80 nel New Jersey e questo fa già notizia, di per sé, se si pensa che abbiamo a che fare con un gruppo che non ha mai abbandonato un modo di fare musica alternativo, indipendente, spesso controcorrente e che, a dispetto dei detrattori e di un importante numero di album in studio (ben 18!), hanno sempre portato alto il loro stile guadagnandosi in molteplici occasioni l’endorsement della critica musicale statunitense.

La carriera degli YLT è paragonabile a quella di un ciclone generazionale. La capacità della band di rimanere sempre attiva è probabilmente attribuibile alla loro predisposizione ad ascoltare. Ascoltare ciò che proviene dall’esterno, quale musica impazza sulle auto dei ragazzi del college che guidano fieri della patente appena ottenuta, cosa sta diventando il mondo. Tutto viene ascoltato dai membri degli YLT (non è un caso che Ira Kaplan, il fondatore del gruppo, sia un critico musicale per il New York Rocker quando decide di comporre musica con la sua compagna e dare vita, dunque, al progetto).

Ascoltare il presente, frullarlo e riproporlo con uno stile che fosse solo loro, immediatamente riconoscibile e capace di definire l’identità di una nuova corrente musicale. Se negli anni ’80 il convitato di pietra della produzione degli YLT erano i Velvet Underground, rimaneggiati in un’ottica nuova e psichedelica; gli anni ’90 hanno visto la band confrontarsi con l’emergere dell’elettronica e con l’aggiunta di varie tinte sonore metalliche alla palette degli strumenti musicali.  Il piccolo miracolo degli YLT è stato quello di riuscire a attraversare i tempi mantenendo intatta l’identità che li definiva da un punto di vista musicale e deontologico, seguendo le mode o criticandole aspramente.  Il manifesto programmatico della band, quello che prevede l’inclusione del passato nel presente è, forse, la traccia per comprendere a pieno l’ultima fatica dei tre musicisti del New Jersey.

Per tutti coloro che seguono la band da tempo, non sarà una sorpresa sapere che nel disco degli Yo La Tengo non v’è ombra del funky e delle sonorità degli Sly & the Family Stone. Ma questa non-sorpresa è, in qualche modo, compensata dalle atmosfere del disco che differiscono notevolmente da quelle degli ultimi lavori in studio che, forse, avevano fatto storcere il naso ai fan. La chitarra così importante nel repertorio della formazione (si pensi al primo Ride The Tiger ma, soprattutto, a May I Sing With Me in cui le atmosfere psichedeliche erano ottenute grazie a un ruolo da protagonista della chitarra di Kaplan) viene posta dietro la maestosa imponenza della sezione ritmica e, in primo luogo, del contrabbasso di McNew. Come a volerci invitare a un ritorno alla calma, alla riflessione, a farci piccoli di fronte all’esigenza della Greatness che tanto ha animato gli spiriti degli elettori degli States.

Le 15 tracce che compongono il disco hanno come fil rouge l’eleganza. A partire dall’apertura (You Are Here) affidata a un crescendo mai troppo invasivo, in cui all’incalzante e solida linea di basso risponde il riverbero della chitarra soffice e sospesa che contrasta bene con la batteria il cui ritmo sembra voler accelerare un brano che, di fatti, non vola mai ma fluttua sulle nostre teste. Si passa dal folk di Shades of Blue alla placida calma di Shortwave la cui quasi mancanza di dinamiche è interrotta da un chiacchiericcio lontano, confuso, che ci fa sentire come quando sul punto di appisolarci, delle voci dalla strada cercano di interferire con la nostra ricerca del sonno.

In generale, le sonorità dell’album sono sognanti, eteree, sospese. Si alternano pezzi cantati soavemente (Let’s Do It Wrong) a lunghi intermezzi strumentali (Dream Dream Away). I brani più facilmente attribuibili agli YLT (For You Too) si mescolano a dei tentativi sperimentali in stile bossanova che lasciano aperte le porte per eventuali future evoluzioni della band (Esportes Casual, Polynesia#1).

Dal punto di vista della scrittura, la musica degli YLT è una musica blue, apparentemente sconsolata (Kidding myself, there are shades of blue/Whenever i see him oh shades of blue) ma il pessimismo ci spinge a pensare a ciò che siamo, al punto in cui ci troviamo perché è uno step necessario per rinascere. Non c’è molto spazio per le parole nel disco, poche incursioni vocali in un lavoro che sembra volerci dire che, a volte, è meglio tacere, respirare a fondo. In un mondo in cui le discussioni ad alta voce servono per sostenere punti di vista scagliati come dogmi, occorre misurare le parole che si usano. I testi servono ad accompagnare delle emozioni create dalla musica, non sono un riempitivo.

Il ricorso storico c’è e si vede. Gli YLT innescano il tentativo di venire fuori da un periodo oscuro, come quello della guerra in Vietnam, e lo fanno attraverso la musica e inglobando al loro interno il passato. Accogliendo l’insegnamento degli Sly, cercano di porre la loro ambizione sociale a un livello diverso dal punto di vista melodico ma simile da quello tematico.

Certo, il risultato non è paragonabile ai vecchi album della band, manca il grip e l’originalità che aveva caratterizzato i lontani, avanguardistici lavori degli YLT. Cionondimeno, il vorticoso progetto della band statunitense spicca per il periodo storico in cui viene lanciato e ci auguriamo che la rivoluzione suggerita con la musica possa rappresentare non solo un piacere per chi l’ascolta.

a cura di Gianmarco Giannelli

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