Ci sono storie, sceneggiature, libri che si scrivono da sé. Non nel senso di una qualche semplicità attuativa, ma bensì nel senso che la loro realizzazione è contemporanea alla loro stessa stesura. “Yellowface” di Rebecca F. Kuang, tradotto da Giovanna Scocchera, è uno di quei libri.
Oltre a questa peculiare caratteristica “Yellowface” ha anche un altro grandissimo pregio: è pungente ed incredibilmente divertente. Qualunque lettore appassionato può ritrovarsi all’interno del libro, poiché la vera protagonista, oltre a June Hayward, è proprio la “bolla editoriale”. La storia pullula di scrittrici, scrittori, editor, blogger, recensori della domenica, è un viaggio critico, ironico e appassionato in tutto quello che è un libro e ciò che comporta scriverne uno negli anni ’20 dei 2000.
June Hayward è quella che si può definire una scrittrice fallita. Il suo primo romanzo non ha smosso i favori della critica e ancora meno quelli del mercato, gli anni dei corsi di scrittura creativa si allontanano sempre più e mentre si trova costretta ad arrangiarsi con lavoretti qui e là per mantenersi a galla, dopo che l’esile anticipo che aveva ricevuto si è esaurito, proprio la sua ex-compagna di studi, Athena Liu, viene invece elevata a nuova dea nell’Olimpo delle scrittrici statunitensi.
La vita di June sta sostanzialmente andando a rotoli, quando una sera accade l’impensabile. La ragazza si trova davanti al compimento di una scelta, ad un bivio etico che tanto la porterà alla gloria quanto la metterà nella condizione di dover nascondere un terribile segreto.
Quella che è la trama vera e propria del romanzo si articola per l’appunto proprio intorno a questo segreto e ai disperati e talvolta goffi tentativi di June di nascondere una verità che la manderebbe in rovina. Vi sono numerosi giochi di “non detti”, fughe, ricatti, ma la trama di per sé è anche un espediente per permettere a Kuang di raccontare il mondo che lei stessa abita. I personaggi si alternano con fare incalzante, dalle più alte cariche della casa editrice al sensitive reader da ingaggiare per evitare di incappare in gaffe che causerebbero immensi danni su Twitter, passando per le amiche scrittrici e stalker senza scrupoli. Tutto è estremamente contemporaneo e conosciuto, dalle recensioni su Goodreads, alle conversazioni tramite messaggistica istantanea, a Substack alle aspirazioni per il Booker Prize.
Ma è anche proprio intorno a questi spaventosi “danni” sopracitati che si articola buona parte del romanzo. Ci si immerge tra le paturnie di scrittori frenati e spaventati, paure di fare il passo più lungo della gamba, di deviare dalla propria appartenenza con editor e case editrici schizofrenici impegnati a dispensare consigli e a studiare strategie per salvare la faccia dagli haters di turno, dagli studenti della Ivy League che in prima fila alle presentazioni sono prontissimi a puntare il dito e sfoggiare tutta la propria sfrontatezza in risposta ad un vecchio post di Facebook ripescato dagli anni del liceo.
Nel raccontare questa parte Kuang sviluppa parte della storia all’interno di quella che è la comunità sino-americana mostrandone sfaccettature ed elementi anche divisivi che rendono gli stessi autori facenti parte delle comunità “problematici”. È un vero viaggio verso quello che ancora rimane possibile dentro la scrittura e anche all’interno di ciò che significhi veramente appartenere ad una comunità.
In un certo senso la domanda centrale di “Yellowface” è “Cosa è o cosa non è problematico? Quali sono le caratteristiche che mettono lo scrittore al sicuro?”. La risposta è che non vi sono luoghi sicuri.
“Yellowface” è in un certo senso il romanzo dell’elefante in cristalleria. Sensibilità distrutte, identità violate, eppure è un romanzo che non si fa mai giudicante e che al contrario mostra, mostra le mille facce della cultura industrializzata e come questa utilizza ad hoc quelle che sembrano essere battaglie reali che finiscono però in un tritacarne di marketing e appariscenza.
Kuang riesce ad intrecciare due aspetti essendo lei per prima persona razzializzata ed in secondo luogo usando allo stesso tempo un personaggio, June, che invece non lo è (specifico che mantengo in questo caso il linguaggio del testo, dove la stessa traduttrice nelle note spiega le motivazioni dell’utilizzo della traduzione letterale di race rispetto a terminologie più contemporanee).
Rebecca Kuang trova in questo modo la via di giocare tanto con se stessa quanto con la sua creazione, creando dei piani intricati che rendono difficile capire chi stia parlando e chi no, rendendo sempre più difficile la scissione tra autrice e personaggio e allo stesso tempo rendendo sempre più intricata e complessa la questione di quelli che sono i diritti dello scrittore nell’epoca probabilmente più attenta di tutte alle sensibilità di comunità ed individui, in un tentativo di rifuggire risposte che non prendano in considerazione tutti i lati del poligono.
È come se vi fossero sempre più libri interni al testo i quali riflettono piani di realtà differenti che sembrano generare una tensione paralizzante. Eppure allo stesso tempo tutte le voci sono in qualche modo rappresentate ed estrapolate da Kuang che riesce a non cadere nell’essere portatrice di un messaggio, ma a donare al lettore un ventaglio di storie possibili.
Anche se, pensandoci meglio, Kuang un messaggio lo lascia, esattamente alla fine, nella parte dedicata ai ringraziamenti. È un messaggio sulla stessa natura del libro, che a seconda di ogni interpretazione getta luce sullo stesso.
Mi sono permesso di definirlo un libro molto divertente, ma come lo descrive la persona che lo ha ideato? Un libro dell’orrore.