L’inesausta vocazione sperimentale degli Xiu Xiu

Fotografie di Alessia Naccarato

 

Per capire meglio gli ultimi dischi degli Xiu Xiu, o di Xiu Xiu – a seconda che uno consideri o meno il progetto una proiezione dell’eclettico californiano Jamie Stewart, piuttosto che una band che ha conservato Stewart come unico elemento costante – il momento del live si rivela fondamentale, e sottopone alla necessità di rivalutare anche il lavoro fatto in studio, piuttosto che accanircisi contro gridando alla fuffa, come ha fatto molta critica di vedute piuttosto limitate negli ultimi anni. Se è vero che la presenza di Stewart fagocita interamente il suono e vampirizza chi lo ascolta, ammesso che ciò significhi qualcosa, l’esecuzione dal vivo si rivela un’esperienza di coinvolgimento davvero totale, in cui mi sembra si possa parlare di un artista che si dona in modo incondizionato piuttosto che vampirizzare, e che si esprime in una dimensione in cui l’eccesso, sia in termini di fisicità, sia in termini puramente vocali, senza considerare i volumi degli strumenti, sia una chiave di lettura determinante.

 

 

L’abbiamo appurato all’Astoria di Torino, punto di riferimento della musica indie nel quartiere di San Salvario e vera e propria isola di riparo dall’assalto dei ragazzini in età scolare. Andiamo ad ascoltare il recente Forget, che coi suoi dieci pezzi brevi ed ermetici allestisce una suite omogenea e spigolosa, scura nei suoni e densa nei testi, nel tentativo di fare ammenda per aver perso Xiu Xiu Plays the Music of Twin Peaks, che si è tenuto l’anno scorso in pompa magna al cinema Massimo, più o meno in questo periodo, concludendo un tour di grande successo e straordinaria longevità. Ma che si tratti di musica difficile, questo lo avevamo già assimilato da tempo, nonostante al momento del live la barriera di vinile del disco si abbatta in favore di una estrema capacità di comunicare stati d’animo ed emozioni nel più diretto dei modi. Il “problema” degli Xiu Xiu è la loro inesausta vocazione sperimentale, da prendere nel vero senso della parola, ossia quello di una ricerca che non sembra volersi adagiare, né agevolare l’ascoltatore indicandogli una decisione precisa. Anche dal palco, Stewart e Angela Seo, che lo accompagna ormai da alcuni anni, continuano a cercare lo scontro tra chitarre e synth, esibendosi in dissonanze cacofoniche piuttosto che armonie, alternandole all’uso di numerose percussioni nel modo meno plausibile possibile. La voce stessa di Stewart, il suo modo così caratteristico di alternare il vocalizzo tremolante al grido scomposto senza affannarsi a cercare una continuità, neppure aiuta a sentirsi a proprio agio. Eppure il basement dell’Astoria è pieno all’inverosimile e totalmente rapito da questa performance, e ci restituisce la possibilità che un duo con un allestimento minimale possa ancora stupire. Usciamo dal locale sorridendo, pensando che è una fortuna che questo gruppo continui a macinare date su date in modo instancabile, e che quindi possiamo augurarci di rivedere presto uno spettacolo tale.

 

 

 

 

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