Immaginate di incontrare Antonio Meucci oggi e di chiedergli cosa ne pensa degli smartphone, ovvero dell’evoluzione della sua invenzione. Vi dirà che se non fosse stato lui, il telefono l’avrebbe inventato qualcun altro, in un modo o nell’altro.
È la stessa reazione di Wolfgang Flür, l’ex batterista dei Kraftwerk, quando gli chiedo cosa ne pensa del modo di fare musica elettronica di oggi. Proprio lui, che nel 1973 costruì le prime percussioni elettroniche, il drum-pads-board, dando il via ai suoni per la techno, l’house, il synth-pop e l’hip-pop, e marcando così una traccia indelebile nella storia della musica: “dipende tutto dai mezzi che l’industria offre”, risponde risoluto, “non serve più andare in uno studio, oggi puoi registrare tutto con un computer grazie ad alcuni software…li uso anche io”. Lontani i tempi in cui insieme a Ralf Hütter, Florian Schneider e Karl Bartos, i Beatles dell’elettronica, si chiudeva nello studio KlingKlang – un ex magazzino di Düsseldorf diventato un luogo quasi mistico, come Abbey Road – per estrarre melodie e comporre album che sembravano provenire dal futuro: da Autobahn, il più famoso, al malinconico Radio-Activity, passando per The Man-Machine, Trans-Europe Express e Computer World.
Oggi Wolfgang Flür ha abbandonato le imbalsamate fattezze robotiche, la camicia rossa e la cravatta, per indossare le vesti quasi messianiche (divisa nera), del Musiksoldat. Si tratta del tema dello spettacolo musicale che da più di dieci anni porta per i club e i festival di tutto il mondo; lo incontro, infatti, poco prima del suo unico concerto in Italia, all’N-Grave festival, primo e inedito appuntamento per gli aficionados di musica elettronica.
“Il musiksoldat è un concetto che si ricollega al mio essere pacifista e alla mia band precedente, i Kraftwerk” – racconta quasi con un entusiasmo garbato, lo stesso di chi rievoca la gloria del passato in un rinnovato presente; lo stesso che guida la sua performance all’N-Grave, in cui dallo scenario rinascimentale di un palazzo cinquecentesco, fa esplodere una setlist, accompagnata da proiezioni di immagini e video di tutto il gruppo, che ripaga diverse generazioni di fan. Non mancano infatti alcune vecchie chicche del passato rivisitate, Home Computer fra queste, ma a fare da protagonista è essenzialmente il beat. Più il suono diventa duro, più il pubblico reagisce, la vecchia scuola di Düsseldorf non ha mai smesso di insegnare. “Ho 70 anni e odio tutto ciò che riguarda il militare e la guerra; durante il mio show viene proiettato un film degli anni ’30 (Gli angeli dell’inferno di Howard Hughes), in cui un giovane soldato tedesco sabota il bombardamento di Trafalgar Square da parte di un aereo tedesco”. Proprio sulle immagini del film, verso la fine del suo live, Flür prende e indossa un elmo risalente all’era della prima guerra mondiale, e comincia a marciare in maniera ironica “ma anche per dimostrare la mia vicinanza al pubblico”: è proprio in questo momento che il musiksoldat si rivela, mentre sullo schermo nero appare il messaggio “make music not war”.
In realtà, i Kraftwerk sono stati la colonna sonora perfetta per l’età industriale che seguì il post-guerra, in cui lo sviluppo tecnologico andava di pari passo con una dimensione sociale sempre più alienante e alienata, la stessa descritta qualche anno prima da George Orwell in 1984 o Aldous Huxley ne Il mondo nuovo. Il rock’n’roll, che aveva accompagnato gli anni della contestazione giovanile e delle proteste civili, aveva già esaurito la sua onda; alle porte dei Settanta i riff di chitarra Gibson, le urla e le simulazioni di fellatio provocavano ormai lo stesso imbarazzo di “una vecchietta senza denti”, come disse David Bowie.
Serviva uno slancio minimalista e meccanico, quasi a-sessuato ma ancora rivoluzionario, che facesse da megafono ai sentimenti di curiosità ed evasione – “ci sarà vita su Marte?” – a cui la Terza Rivoluzione Industriale prometteva di fornire risposte.
In questo contesto, la Germania del dopoguerra – quella in cui gli Alleati e i Sovietici si disputavano il ruolo di buoni o cattivi – si prestava come habitat ideale a un certo modo di sentire, vestire e suonare. “Vivevamo tutti nella Germania ovest e sentivamo l’influenza degli Alleati: la nostra insegnante di inglese a scuola cominciò a portarci i dischi dei Beatles per farceli cantare”, fu proprio lei a spingere Wolfgang ad entrare nella sua prima band e a scoprire quello che sarebbe stato il suo strumento: “entrai nella sala prove e vidi questo magnifico set di batteria… da quel momento in poi decisi che volevo diventare un batterista e non fare altro che rumore!”
Le percussioni elettroniche furono un’invenzione, quasi casuale, che Flür realizzò in occasione della prima apparizione dei Kraftwerk su una Tv tedesca: “Ralf e Florian mi invitarono a suonare con loro ma non avevano un buon set di batteria. Avevamo questa scatola elettronica che aveva diversi beat e suoni che però dovevano essere suonati a mano”, racconta gesticolando e imitando il suono dello strumento (“bum-bum cha!”), “ci aggiungemmo delle bacchette di metallo per usare le varie tonalità e ci presentammo in TV con questo aggeggio quasi infantile. I cameramen non ci staccavano le loro lenti di dosso e lì pensai tutto orgoglioso: questo è il Futuro della batteria! E rimasi nel gruppo”.
I Kraftwerk, ospiti alla Rai, cantano in Italiano “Pocket calculator”
Il resto è storia. Tra scenari apocalittici di minaccia nucleare (Geiger counter) e amore cibernetico (Computer Love), tra sintetizzatori e sample ultraterreni, i Kraftwerk divennero la “soluzione finale al problema della musica” – come suggerì il critico musicale Lester Bangs – o meglio, “il passo successivo” – come gli rispose Hütter. Dai New Order a Madonna, da Iggy Pop ai Depeche Mode, dai Prodigy ai Daft Punk fino a St.Vincent e Kanye West, tutti sono passati in un modo o nell’altro attraverso le note caustiche dei tedeschi. Ma il primo fu senza dubbio proprio Bowie: si dice che durante il suo tour europeo di Station to Station, girasse con una Mercedes e ascoltasse Autobahn a ripetizione. Un vero e proprio fanatico del gruppo, tanto da chieder loro di aprire i suoi concerti con Radio-Activity. Per una quasi malsana forma di auto-referenzialità (i Kraftwerk non collaboravano con nessuno), lusingati, rifiutarono e andarono avanti. Bowie trovò nei Kraftwerk quel suono che usciva fuori dal cliché della musica rock e pop, che ancora impazzava in America. E lo stesso Wolfgang ricorda di quanto fosse stato traumatico l’arrivo sulle terre statunitensi: “Fu come andare in chiesa! Fu davvero uno shock culturale, sia per noi che per loro… in ogni caso non eravamo pronti per Broadway così presto.” Autobahn fu comunque una hit e in 3 mesi fecero 90 concerti di fila in ogni angolo del continente.
Flür mi dice che Karl ora sta per pubblicare il suo libro di memorie, che lui sta leggendo e grazie al quale ha ricordato molte situazioni che aveva dimenticato. Mentre parliamo, alterna momenti in cui la sua voce assume un tono di tenerezza quando ricorda i suoi compagni – “eravamo come una famiglia elettronica” – ad altri in cui ribadisce di quanto è felice di essere andato avanti: “non era il mio sogno suonare Autobahn ogni sera, 40 anni dopo…avrei avuto bisogno di molto alcol per sopportarlo!”. Oggi Flür lavora con diversi musicisti internazionali (in passato Bon Harris, Jack Dangers e Moda Makina, tra questi) tanto che, mi anticipa, il suo nuovo album si chiamerà appunto Collaborations; “ascolto la musica, le sequenze, che mi inviano e la sviluppo con miei sample… da quando ho lasciato il gruppo ho potuto sperimentare più cose. Mi sento un visionnaire.” E alla domanda se preferisce suonare digitale o analogico, non si scompone: “Sono aperto a qualsiasi cosa se il risultato è buono. Non sono chiuso da dire – Ah, ma io ero nei Kraftwerk…Diciamo che oggi non è più musica minimalista, ma massimalista.”