Wild Nothing – Life of Pause

Dopo quasi quattro anni dall’ultimo disco, esce Life of Pause,  il terzo album in studio dei Wild Nothing. Le aspettative sono altissime, specialmente dopo il successo dei due lavori precedenti che hanno contribuito, assieme alle incisioni di Beach House, DIIV e Beach Fossils al rilancio su scala mondiale del dream pop e dello shoegaze.

L’album di debutto, Gemini, lavoro giovanile registrato in piena filosofia lo-fi e DIY, trasmetteva tutta l’immediatezza e la sfrontatezza del giovane Jack Tatum, frontman della band. Un piccolo capolavoro, accolto con grande entusiasmo dalla critica e dal pubblico. Le intenzioni erano fin da subito molto chiare: riproporre le sonorità tipiche del C86, costruendo sui riff riverberati delle chitarre, melodie semplici e sognanti, che facevano diretto riferimento alle band inglesi a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, come Cocteau Twins, Cure, Smiths e Jesus and Mary Chain.

Il successo internazionale era prevedibile e ha portato i Wild Nothing a presenziare ai più importanti festival mondiali. Forse è calcando questi palchi assieme ai Deerhunter, Kurt Vile e Ariel Pink, che Tatum e compagni hanno sentito l’esigenza di distanziarsi dai primi lavori, cercando di andare oltre ai manierismi e provando a costruire un suono più originale.

 

 

Ascoltando attentamente Life of Pause, infatti, si possono individuare due nuovi percorsi sonori intrapresi dalla band. Una via, la più sperimentale, si avvicina alle sonorità tipiche della neo-psichedelia, dove gli intrecci delle chitarre si fanno più complessi, e i riff creano giochi di delay e distorsioni con i synth analogici. Brani come Alien e A Woman’s Wisdom ricordano a tratti alcuni lavori di Bradford Cox. Infatti, sempre più vicini agli anni ’70, sono guidati da cambi di ritmici e di tonalità, mentre la voce riverberata e distorta, sembra uscire da un vecchio grammofono ossidato.

Invece, la seconda direzione intrapresa da Tatum e compagni, è un richiamo diretto ai groove black della musica soul e funky anni ’70. Ed ecco quindi che in brani come Lady Blue, Life of Pause, Adore e TV Queen si spolverano vecchi pad e pianoforti leggermente dissonanti, mentre il basso suona ritmiche incalzanti. L’atmosfera che si crea è quella di un nightclub in cui, tra uno spettacolo di lapdance e l’altro, una band dai capelli cotonati emerge dal fumo della sala, suonando una pessima colonna sonora. La scena diventa ancora più vivida quando in Whenever I entra un lieve suono di sassofono ad accompagnare il riff di chitarra.

Nel complesso Life of Pause è un disco piacevole e ballabile, dai toni decisamente meno cupi e sognanti rispetto ai due lavori precedenti della band. Ma quello che si perde in sonorità, si perde anche nell’uniformità che aveva caratterizzato il disco precedente. Come si può intuire dai frequenti cambi di scenari musicali, manca una direzione chiara e precisa. Succede spesso, infatti, che da brani guidati da groove di basso funky, vicini alla prima musica dance, si passi subito a canzoni costruite sulla batteria monotona e lineare tipica del dream pop. È chiaro che siamo di fronte a un album di transizione e di sperimentazione, però, nel complesso, sembra che Tatum e compagni, non abbiano avuto il coraggio di rompere completamente col passato. Ne sono testimoni pezzi, tra l’altro forse tra i più belli del disco, come To Know You e Japanese Alice, che rimangono perfetti esercizi di stile dream pop.

Il risultato è un disco incerto e traballante, ricco di belle canzoni, se ascoltate singolarmente, ma che non scorre come dovrebbe. Quello che lascia è una sensazione fastidiosa di incompletezza, come un romanzo ricco di colpi di scena, ma con i dialoghi piatti e poco accattivanti. A questo punto non possiamo augurarci altro che i Wild Nothing, nel lungo tour che partirà a breve, si possano chiarire le idee per scegliere una direzione precisa, o ancora meglio, continuare a fare dell’ottimo dream pop.

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