«We decided we wanted to play some acoustic music. Jay spent time finding recordings in the library, and we listened to obscure Folkways records. We wanted to boil things down to the essence. Country music had been one step in that direction and folk took it even further. We wanted to get to some pure, elemental music» – Uncle Tupelo: An Anthology (’89-’93).
Ancora prima della formazione dei Wilco, Jeff Tweedy parlava così del progetto con Jay Farrar ed è interessante come le stesse considerazioni sembrino adatte anche alla sua produzione più recente. Dieci album, cinque EP, cinque collaborazioni (tra cui quella notevole con Billy Bragg, in cui i due hanno messo in musica molti dei testi inediti di Woody Guthrie) ed ecco che il frontman della band di Chicago sembra dire: “Adesso si respira”.
Ascoltando le nuove dodici tracce, immagino un Tweedy come sempre irrequieto, ma ormai in piena confidenza con le riflessioni sulla vita, che siede su un’ampia sedia nel portico della propria coscienza. È come se con un immaginario gesto affettuoso avesse preso da parte il figlio (o molti figli immaginari) per leggergli Schmilco: uno zibaldone moderno delle piccole emozioni dell’infanzia.
L’album, inciso in contemporanea con Star Wars (uscito l’anno scorso), è una sorta di retrospettiva su ciò che Tweedy ha appreso dalle proprie esperienze, nel bene e nel male. Ridotto all’essenziale («to some pure, elemental music» per intenderci), inizia col racconto di Normal American Kids, dove l’artista ricorda di sé molto tempo prima, quando era solo un ragazzo turbato dall’immagine di un’uniformità a cui non sapeva come relazionarsi, e prosegue attraverso pezzi come If I Ever Was A Child, tenero inno alla sensibilità, Common Sense, mormorante lamento di noia, e Locator, uno dei tre singoli estratti e tra i brani che mantengono più forte il legame con quella che solitamente è l’identità sonora dei Wilco.
Su questo disco ci sono poche cose da dire e ben precise.
Non è pretenzioso, non chiede di essere ascoltato a tutti i costi e non promette di sconvolgere nessuno. D’altra parte, l’intenzione dei Wilco è proprio quella di prendere una strada diretta all’intimismo e alla chiacchierata sottovoce, quella che si fa con pochi. Lo suggerisce la stessa We Aren’t The World (Safety Girl), che, rivolgendo un occhiolino malizioso al celebre coro di Michael Jackson, racconta di tutto fuorché di una vicenda che si possa estendere all’umanità generica.
Potrebbe quasi essere definito un primo album della maturità di Tweedy, che, come la voce narrante del film su se stesso, ha sempre una gran voglia di raccontare. Questa volta, però, lo fa con una malinconia più sottile, più celata e quasi rassegnata all’evidente incomprensibilità di cose che fanno parte della vita e che lui ha sempre indagato, ma per cui non serve più arrabbiarsi. Anzi: viva l’ironia, che da buon tratto distintivo della poetica del cantautore compare fra le righe di tutti i brani.
L’approdo all’essenzialità compositiva che caratterizza Schmilco ha richiesto alla band di sacrificare molti dei suoni elettrici su cui era costruito Star Wars e ha fatto sì che il risultato che ne deriva non sia la registrazione più esaltante della formazione, ma presenti comunque una coerenza che gli permette di funzionare bene.
Ecco dunque i Wilco più country e più folk che mai, che, attraverso scelte stilistiche in perfetta linea con quella sorta di manifesto antesignano citato prima, riescono a fare un passo avanti nella propria storia artistica, rivisitandosi e completandosi.