In punta di piedi | White Lies @Ferrara sotto le stelle

Le fotografie sono a cura di Alise Blandini

 

Bisogna entrare in punta di piedi quando si entra in contatto con le storie degli altri. E puoi stare solo a guardare il trascinamento della folla, di chi si bacia o si stringe, batte le mani e poi chiude gli occhi per cantare. Un trascinamento che non possiamo comprendere, per ciò che siamo noi e per ciò che sono gli altri. Differenze di età, almeno nelle retrovie, quando cerchi di capire se gli ascoltatori dei White Lies siano gli eredi di quella corrente rinnovata fra post punk, new wave, New Order o The Cure, o se lo sdoganamento provenga dalle rotazioni made in Virgin Radio.

 

 

Per essere la prima volta che ascoltavamo dal vivo la band di Ealing sono tendenzialmente due gli aspetti che ci colpiscono. Da un lato la mancanza di quel mistero caratterizzante le esibizioni di questo genere, con i movimenti di Harry McVeigh o le invocazioni ad alzare le mani, la spinta ai cori e quel pubblico irreprensibile, di ogni genere ed età che indossa magliette che vanno dai Kings Of Leon ai Linkin Park, fino alle polo Fred Perry. Non per questioni di fashion blogging, quanto perché su certi punti ci si fa affidamento, sennò si è persi, per quanto siano ovviamente limitanti. Ma lo utilizziamo come indice, per capire chi sono le persone che abbiamo intorno, come in una cartolina un po’ sbiadita in cui inquadrare amici che non si vedono più da tempo, anche per cercare di calarsi nel modo giusto fra la fila per l’ingresso soldout e quello che ci aspetta quando si entra. In punta di piedi, anche se questa sembra più una scivolata, è complicato rendere giustizia alle tante storie che si intrecciano perché eravamo a un ritrovo vero e proprio di questa insospettabile frangia, che si emoziona a ogni colpo della batteria piena di effetti così come quelli del basso, insospettabile, o per le estensioni vocali di McVeigh che ragionevolmente non raggiungono l’album ma premono sulla profondità, mentre a dettare il ritmo è il piano-synth. Si è passati così da un album all’altro, da quel To Lose My Life.. e, soprattutto, Ritual, con i suoi aprifila Bigger Than Us, Farewell to Background, fino ai più recenti Big Tv e Friends, e i suoi pezzoni più armonici, testimoni di un cambio intenzionale e ai limiti del revival, che ha spostato l’attenzione dei canali su di loro e di cui ne vediamo l’impatto diretto oggi. Marea non è il termine giusto, ma forse il migliore per descrivere il modo di accalcarsi delle persone che c’erano, mai calante, attivi dal primo all’ultimo pezzo. Presenza a un rituale a cui anche i non invitati possono rintracciare quel motivo di serenità, quasi contagiosa, per un genere che dovrebbe spingere più verso una triste decadenza, mentre il rapporto si inverte verso un  maggiore coinvolgimento, sfruttando l’uso dei chorus a non finire che stringano quel popolo e lo portino sul palco insieme a loro.

 

 

L’ultimo concerto di questa edizione del Ferrara sotto le stelle è stato per queste ragioni un’insegna romantica a suo modo, di nostalgie differenti forse nemmeno così pesate, la stessa che per motivi diversi, in situazioni diverse, siamo riusciti ad avvertire anche noi, quando il rapporto si invertiva e c’eravamo noi a stringerci. Quello delle stelle è uno spettacolo importante, in un clima di apertura che sembra sempre più impossibile ci riesce Ferrara, aprendo i suoi spazi distintivi, che continuano ad affascinarci, ogni volta, ogni concerto in cui ci ritroviamo, per questioni che ci riguardano come in quelle che sembrano più distanti da noi. È questa la direzione giusta da cui ripartire per non finire più. Those stars who shine so bright.

 

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