Da giorni impazzavano i rumours – piuttosto accreditati, a dire il vero, provenendo dallo stesso manager di Neil Young – ma senza che arrivasse uno straccio di ufficialità: gli organizzatori del Coachella erano ad un passo dal chiudere un festival leggendario, in cui si sarebbero esibiti Who, Neil Young, Paul McCartney, Bob Dylan, Roger Waters e Rolling Stones. Proprio ieri, mentre i Radiohead decidono clamorosamente di scomparire dal web, ecco arrivare la conferma, finalmente: quasi in sincro, sulle pagine social di tutte le leggende appena citate (Young escluso, ma sapete com’è fatto…), ecco apparire lo stesso messaggio, meno criptico di quello di Thom Yorke e soci, “ché bisogna vendere i biglietti”, ma non meno evocativo. Quel laconico “October…” annuncia di fatto che tra meno di sei mesi il sogno di ogni baby-boomer diventerà realtà: i più grandi miti degli anni ’70, o almeno quelli ancora in vita, suoneranno insieme, nel giro di tre giorni, sullo stesso palco.
“Three days of peace and music”: così gli organizzatori scelsero di pubblicizzare la tre giorni di Woodstock nel 1969, gratuita, nonostante le intenzioni iniziali degli stessi, , diventata negli anni il simbolo di una generazione (perduta) di giovani speranzosi e trampolino di lancio per giovani sconosciuti imbottiti di mescalina come Santana – che fu pagato solo 750$ – e Joe Cocker. Come presentare invece questo a cui in molti hanno già affibbiato il nomignolo di Oldchella, di Coachella dei vecchi? Il mio modesto consiglio agli organizzatori, che non credo si sogneranno minimamente di seguire, è quello di venderlo per ciò che è, senza finzioni: “una Woodstock postmoderna”. Sempre che ci sia bisogno di un qualsiasi sforzo di marketing per convincere il pubblico a partecipare ad un evento del genere.
Perché postmoderna? In primis, perché il parallelo con la Woodstock originale, che sentirete ripetere costantemente sui media nei prossimi giorni, è, in sé, profondamente antistorico. Degli artisti che parteciperanno all’Oldchella, innanzitutto, soltanto gli Who e Neil Young erano nel cartellone del festival del ’69. I Pink Floyd non avevano ancora pubblicato nemmeno Atom Earth Mother ed erano ancora poco conosciuti negli States, mentre si narra che le trattative con i Beatles non ebbero neppure inizio per l’assoluta indisponibilità degli organizzatori ad ospitare la Plastic Ono Band di Yoko con le sue urla cacofoniche. Molto più interessanti da un punto di vista simbolico, invece, i forfait di Bob Dylan, che preferì l’Isola di Wight, e dei Rolling Stones, con Mick Jagger impegnato in Australia sul set de I fratelli Kelly. Al di là dei motivi economici e logistici, anche legati all’effettiva incertezza che aleggiava su tutta la folle avventura di Woodstock, il rifiuto di entrambi era legato ad una sostanziale e profonda distanza dall’ingenuità narcisista del mondo hippie. È risaputo come Il cantautore di Duluth mal sopporti il venire considerato la voce del movimento pacifista, tanto da rivendicarne continuamente l’indipendenza con le parole e con i fatti, facendo scelte – dalla pubblicità della Chrysler all’esibizione per Karol Wojtyla, a Bologna, nel 1997 – che avrebbero sicuramente fatto rabbrividire Country Joe and the Fish. Per quanto riguarda gli Stones, Jagger e soci preferirono organizzare la propria Woodstock nel circuito di Altamont, quattro mesi dopo il successo planetario dell’originale, con un cast pressoché identico (Santana, CSNY, Jefferson Airplane…) ma senza un grammo dello spirito (e della retorica) dell’originale, tanto che il servizio d’ordine venne affidato ai violentissimi Hell’s Angels. E sarà proprio l’assassinio di un innocente ragazzo afroamericano per mano loro, di fronte allo sguardo spaventato di un Mick Jagger mai così a disagio nel suo costume da diavolo, a marcare l’epilogo dell’epopea hippie, alla pari dell’omicidio di Sharon Tate.
Insomma, anche con le migliori intenzioni, l’Oldchella non potrà essere una nuova Woodstock, dato che nessuno, se non forse Neil Young, pare interessato a farsi testimone, e testimonial, di quell’idea di mondo che per un istante parve poter diventare maggioritaria. Paradossalmente, sarà invece una celebrazione del trionfo, della sopravvivenza (biologica e non) di quegli artisti che, più o meno espressamente, hanno scelto di preservare la propria libertà all’interno delle logiche di mercato, piuttosto che rinunciarne ad una porzione aderendo ad una causa, ad un partito, ad un movimento. Insomma, una celebrazione della libertà più nel senso Reaganiano che Hendrixiano del termine.
La Woodstock del 2016 sarà postmoderna in ogni suo aspetto: anti ideologica e profondamente simbolica, apolitica ma, senza ombra di dubbio, capitalista. Postmoderni saranno gli artisti, pagati e applauditi, è inutile girarci intorno, più in quanto ologrammi della propria giovinezza che in quanto esseri umani vivi e vegeti. Ma lo sarà, soprattutto, il pubblico: se le pur triste Woodstock del ’94, ricordata principalmente per la battaglia a base di fango durante l’esibizione dei Green Day, e quella violenta e incendiaria del ’99, avevano quantomeno attirato un pubblico giovanile con un’offerta musicale al passo con i tempi, la versione 2016 sarà popolata da anziani – e l’età postmoderna è indubbiamente quella del tracollo demografico nei paesi ricchi – nostalgici e, soprattutto, benestanti. Sì, perché il vero paradosso è che la generazione dei baby-boomers, ormai pensionata, è ad oggi l’unica a potersi permettere i prezzi, proibitivi – c’è da scommetterci – dei biglietti, lasciando fuori i propri figli e nipoti, le cosiddette “generazioni perdute” di cui sentiamo costantemente parlare ai telegiornali.
Uno resta quindi il punto di congiungimento tra il 1969 e il 2016. Come Woodstock è ancora oggi lo specchio della propria epoca, giovane, sognatrice e ingenua, dei propri limiti e delle proprie ambizioni, così l’Oldchella rischia di diventare quello della nostra, nostalgica e disillusa. Ed è significativo che a rimanerne tagliati fuori, sopra e sotto al palco, sarà proprio la nostra generazione.