Mentre Spotify si arrende alla rivoluzione digitale e diventa gratis anche su tablet e smartphone, rendendo quasi obsoleta la pirateria musicale grazie al servizio di streaming dei contenuti, in Italia si parla di pirateria preventiva, prendendo in prestito dall’America di Bush jn un vecchio vizio di far la guerra preventiva a qualcosa. Si chiama equo compenso, e ha molto poco di equo e parecchio di solidale nei confronti della Siae, “un contributo imposto ai produttori e agli importatori di prodotti elettronici finalizzati alla riproduzione o alla registrazione di contenuti digitali come indennizzo sull’utilizzo e la copia privata delle opere protette da diritto d’autore”. In pratica, per ovviare alla probabilità che sul tuo cellulare tu possa avere l’ultimo disco di Nick Cave in versione pirata, il prezzo dello smartphone aumenterà (di circa 4 euro), così sarai a posto con la legge. In realtà l’equo compenso in Italia era già stato ampliato ai supporti digitali nel 2009 grazie a un decreto di Sandro Bondi (che fa parte di quella vecchia categoria di politici scollati dalla realtà), ma con la Legge di Stabilità il ”contributo preventivo” dovrebbe aumentare. Si dirà che in Francia e Germania – e al contrario di tutti gli altri paesi Ue (per esempio, il Regno Unito non prevede proprio una tassa del genere) – l’equo compenso sia più alto di quello italiano, tuttavia il prezzo di uno smartphone in questi paesi è pure più basso. Quello che vorrei mettere in evidenza è come la tassazione del digitale finisca sempre per ricadere sul consumatore alla fine. E come i legislatori ignorino le basi della rivoluzione digitale (non ce li vedo i pianificatori della Legge di Stabilità ad utilizzare Spotify, poi magari mi sbaglio: non è obbligatorio, ma un minimo di conoscenza di materia non farebbe male per chi pretende di regolare la vita di un paese intero).
Con questi presupposti in settimana i legislatori sono finiti anche su Forbes con un altro capolavoro che è quello della Google Tax. Che per esteso sarebbe meglio chiamare Web Tax. Con questa legge i giganti del web come Google, Facebook, Amazon, avrebbero l’obbligo di aprire una partita Iva italiana per fatturare i loro guadagni in Italia. ”Se un colosso come Google utilizza per vendere agli utenti italiani la rete italiana è di fatto una “stabile organizzazione in Italia” e dunque anche la società di Mountain View deve pagare le imposte in Italia, come per esempio l’Iva.” (La Repubblica). L’altro passo è quello che Il Sole 24 Ore ha definito la norma più severa d’Europa, un disegno di legge che prevede un compenso agli editori per l’utilizzo dei contenuti sui motori di ricerca. Tant’è che a proposito del clima da rivoluzione digitale all’italiana c’è un bellissimo racconto su Wired a cura di Massimo Russo, dal titolo: 2033, ritorno dell’autarchia: web-tax, legge di stabilità, AgCom e la fine degli e-book. E’ questa la Destinazione Italia?