Il rizoma è una struttura di resistenza, la rappresentazione ideale di qualcosa che sopravvive nell’ambiente più ostile frequentando il sottosuolo e custodendo preziosamente le gemme della vita che verrà. La sua forza sta in questo suo resistere in maniera sileziosa, parallelamente alle difficoltà degli altri di adattarsi a un clima feroce che cerca, inevitabilmente, di strapparlo via. Si unisce in banchi, il rizoma, la variabile ignota a una società che tenta di etichettare ogni cosa per ristabilire il suo angolo di tranquillità e non vacillare nel buio, finché le eliche dei pescatori lo fagocitano per aprirsi il passaggio. Uno stato di precarietà che implica, contemporaneamente, la pretesa di imporsi alle proprie condizioni in un rapporto fra due forze visibilmente non alla pari, di aderire ai propri principi nonostante tutto spinga in una direzione opposta e che, il più delle volte, significa venirne schiacciati. Ma il rizoma non viene mai definitivamente sconfitto, sparge le sue gemme, ne nasce sempre un altro ogni volta che cade.
Negli anni ’80 la Londra culturale che si opponeva all’epoca di Margaret Thatcher era in continuo fermento. Nascevano e morivano a una velocità fuori dal normale mode e icone, la rivolta musicale si trovava ora divisa fra l’anarchismo punk nelle sue forme più dure e gli eredi pop della brillante degenerazione glam. Hippies e squatters si dirigono tutti a Notting Hill dando vita a Frestonia nel 1977, all’interno delle grandi fabbriche occupate ogni notte si organizzano feste ed esposizioni artistiche in cui germoglierà la cultura rave mentre l’avanguardia sposa una nuova forma, nella reazione più anticapitalistica e anticonsumistica della sua storia. In un ritmo frenetico ogni sgombero della polizia corrisponde a una nuova occupazione e a nuovi gruppi di persone che si formano. La sperimentazione e il rifiuto dei compromessi diventano l’assunto imprescindibile, anche per quanto riguarda i rapporti con le persone e le cose. Generazioni di nuovi travelers cominciano la loro marcia per il paese e l’Europa, rifiutando ogni regola che la società del consumo vuole imporgli. Accettano la loro condizione di minoranza e di ultima resistenza umana, raccogliendosi in comuni e in movimenti artistici che cercano di aprire le porte su un mondo parallelo e fiabesco, ma con note pessimistiche e orrorifiche, con la funzione di esorcizzare la realtà o inserirsi in una profonda rivalutazione dei suoi principi. Il mondo della post modernità scopriva un uomo nuovo, ostile all’industrializzazione e alla sua etica, un outsider che si cibava dello scarto per sopravvivere e si rifiutava di essere complice della frenesia quotidiana e senza futuro dei suoi simili. Un mutoide che cambiava forma rispetto ai contemporanei,attaccando direttamente il cuore della società degli sprechi.
La Mutoid Waste Company nasce alla fine degli anni ’70 in uno dei casermoni di King’s Cross, estendendo la riflessione sulle conseguenze dello sfruttamento che l’uomo stava adoperando sul pianeta a una resistenza nichilistica e formale che partiva dal recupero dei materiali di scarto industriale presenti in ogni zona di Londra e li trasformava in opere d’arte che avrebbero caratterizzato la scenografia dei loro festival notturni. Ma, prima di tutto, prima dell’arte e delle feste, si trattava di un luogo in cui rifugiarsi, ci racconta Strappa nella sua casa di Mutonia, trent’anni dopo: «Quando occupammo il primo capannone di Mutoids non avevo un posto dove vivere nemmeno io, così ho preso una stanza lì dentro, tre mesi dopo ci avrebbero sgomberato. All’inizio non avevo niente a che fare con l’arte, noi giocavamo con i rottami e gli scarti, l’unica cosa che possedevamo era il nostro tempo. Eravamo giovani, e liberi». Strappa è ancora il punk con la cresta blu che parla al giornalista della televisione locale, anche se i capelli si sono ingrigiti e ha sentito la necessità di fermarsi, sei mesi all’anno, a Mutonia e costruire lì la sua casa. In piena fase rave, stanchi del continuo inasprimento delle leggi da parte del governo Thatcher, i Mutoids si spostano ad Amsterdam, poi Berlino, Barcellona e Parigi, fino ad arrivare in una ex cava di ghiaia vicina a Santarcangelo: «Quando ho lasciato il paese mi sono sentito come un ratto che se ne va via mentre la nave sta affondando, ma l’idea di vivere libero non era più legale in Inghilterra». Un esilio costretto dalle autorità e una necessità di movimento, che rinvigorisce il gruppo e lo porta ad esibirsi e a mostrare le loro opere nelle città e nei festival di teatro più importanti. Questo accade perché, a differenza di gran parte del movimento rave, i Mutoids non si sono fatti assorbire completamente da quella cultura, evolvendosi in uno stile di vita artistico con dei contenuti fondamentali per consentirgli di sopravvivere: «All’inizio non ci sembrava possibile pensare che un giorno ci saremmo fermati, l’unica cosa che ci importava allora era la volontà di essere liberi, di stare insieme e creare spazi per altre persone, in cui si potessero sentire a casa e festeggiare e anche venire influenzati da ciò che facevamo».
Ad accoglierci troviamo Debs, in arte Wrekon, che ci viene incontro con le mani sporche di olio e un paio di occhiali da saldatore che le raccolgono i capelli rossi. Anche lei è arrivata a Santarcangelo e si è fermata insieme a Strappa, ora hanno una figlia, e concorda col suo compagno sulla necessità di stabilizzarsi senza, per questo, necessariamente scendere alla logica dei compromessi da cui sono sfuggiti per tutta la vita. Il nomadismo delle origini che li aveva portati in giro per l’Europa si è sostituito a una stanzialità del tutto particolare e unica nel suo genere. Mutonia è rimasta la stessa comunità attiva che vive le proprie opere d’arte senza limitazioni. Le sculture, fatte da telai di automobili e altri materiali di recupero, si ripropongono all’interno delle loro case, costruite coi materiali di container, roulotte, vecchi autobus a due piani, e assemblate con perizia artigiana per renderle abitabili. «È vero», ci dice Debs, a proposito di questo fondamentale cambio di direzione, «alcuni di noi hanno abbandonato la vita nomade, siamo in un qualche modo rientrati nella società ma con le nostre condizioni», concludono entrambi mentre ci servono il caffè. La loro arte nel corso degli anni ha guadagnato sempre più attenzioni, venendo riconosciuta come genere mutoide in ogni parte del mondo. Rappresentano animali meccanizzati con motori da due e quattro cavalli, umanoidi e figure mitologiche di dimensioni colossali che, solo da lontano, incutono un certo timore: «L’arte è diventata il nostro modo per comunicare con le persone, ci hanno permesso di diventare parte della città di Santarcangelo». Fuori da ogni etichetta hanno costruito la loro città recuperando un mondo abbandonato e dismesso, dedicandosi al riciclo prima che il mondo se ne accorgesse, dando ai prodotti dell’industria meccanizzata un carattere totalmente unico e non replicabile.
Il valore dell’accoglienza è rimasto nel corso degli anni uno degli aspetti imprescindibili all’interno della vita della comuntà Mutoide. È Lupan, insieme a un’altra ragazza l’unica componente italiana alle origini di Mutonia, ventidue anni fa, a ritornarci più volte. Cambiare vita per loro è arrivato in maniera istintiva, come l’approccio all’arte in cui non ci potevano essere vie di mezzo perché la cura del gruppo, il lavoro e gli spettacoli richiedevano un impegno costante: «Nel ’96 quando sono arrivata, si trattava di una comunità molto più stretta, numericamente e artisticamente, tutti i lavori venivano divisi in parti identiche. Ci si supportava molto e ognuno era vicino all’altro a seconda del bisogno. Era proprio un’isola differente, in cui rifugiarsi, rispetto a tutto il resto». Ognuno coltiva il suo stile e le sue direzioni, riempiendo di simbologie le proprie opere senza tralasciare quella componente predominante del post-umanesimo. La ricerca dei pezzi giusti con cui comporre le proprie opere è cambiata nel corso degli anni e anche la loro produttività è calata, si è particolareggiata e ha studiato nuovi modi di comunicare: «nei primi anni andavamo a casa dei contadini con il camion a raccogliere oggetti in disuso, automobili, lamiere e fili spinati, ci offrivano da bere e ci fermavamo a parlare con loro, o ci portavano direttamente al campo come se avessimo sempre fatto parte di Santarcangelo. Non avevano e non hanno ansie nei nostri confronti». Il profondo rapporto che hanno stretto con la popolazione, che si è mobilitata in gran numero contro la minaccia di sfratto del 2013, è uno dei segni di questo mondo in cui si celebra ancora la vita e la libertà, la comunione di intenti nel migliorare le proprie condizioni restando umani. Le opere di Lupan rappresentano questa continua ricerca di una forma ulteriore, che assimila l’umano alla variabile meccanica e industriale e, così, tutte le altre che riempiono Mutonia del suo fascino.
Lyle Doghead costruisce mutoidi meccanizzati, parte della componente più radicale dei Mutoidi. Anche lui è arrivato dopo un lungo viaggio dal Canada e ha fatto di Mutonia il suo campo base. Ci mostra le sue opere maestose, rinoceronti che sputano fuoco e si muovono con la forza di ingranaggi e pistoni. Quando gli chiediamo cosa significhi far parte di un modello di vita alternativa ci risponde senza esitare che «Per me questa non è un’alternativa, questo è il mondo che io ho sempre vissuto, di altri non ne conosco». Sulle mani e le braccia i segni di appartenenza alla cultura mutoide che lo accolto quando non aveva altro che un piccolo camion-roulotte in cui vivere nella Manchester del ’96: «Ho sempre vissuto fra rottami e viaggiatori. Mio nonno è partito per il Canada quando aveva sedici anni, possedeva due auto, una per spostarsi e una per dormire e avere pezzi di ricambio. Forse sarà stata la genetica, o il ricordo dei suoi racconti, a spingermi verso questo tipo di vita. Quando ho incontrato i Mutoids a Londra la prima volta mi sono accorto di non essere solo, mi hanno accolto e qui ho trovato la mia casa». Negli anni, ci racconta, anche la sua abitazione si è evoluta. Non più un camion ma una serie di container tagliati e manipolati, porte a vetro e un albero, incastonato all’interno. La convivenza col mondo che li circonda è rimasto un punto fondamentale. I Mutoidi non sono mostri apocalittici venuti a distruggere il pianeta, sin dalle loro origini il punto è stato custodire gelosamente ciò che il mondo gli ha offerto. Non produrre cose nuove ma ripristinare l’uso di ciò che viene buttato, cambiargli natura e consentirgli di cambiare valore senza venire abbandonato, un po’ come accade con le persone che scelgono di unirsi a loro. Negli anni questo rapporto fra cose e umani si è approfondito, trasformandosi in una simbiosi che gli ha consentito di sviluppare la propria estetica. Lo diceva Lupan, parlandoci di come, ormai, la selezione dei pezzi che le servivano per costituire le sue sculture si scegliessero da soli, come se un richiamo la avvertisse e, prima di trasformarsi in idea, il materiale di scarto si presentasse nelle sembianze di ispirazione. Ce lo conferma Lyle, la cui scienza e abilità artigiana si riproduce attraverso una scelta precisa di ciò che gli serve mentre la motorizzazione gli consente di dare un’anima a cose che, per il motivo contrario, vengono buttate via dalla maggioranza.
Quelle di Strappa, Debs, Lyle e Lupan sono solo alcune delle storie che si possono ascoltare visitando Mutonia. Storie di alternative che si ricompongono e si disperdono come i loro rottami che mutano forma e diventano azioni artistiche che puntano il dito verso il nostro stile di vita fatto di sprechi ed esaurimento delle risorse. Non alieni, né minoranza, ma una comunità viva che si nutre di movimento, che vede possibilità creative e sociali in ciò che noi spesso consideriamo da buttare quando, invece, non è così: nei rapporti umani, nelle nostre auto costose, nella pretesa di una stabilità che, invece, cozza contro la nostra natura inventiva. Strappa si ricorda di una scritta a Bologna, si dice preoccupato per i continui sgomberi da parte della polizia degli spazi di condivisione sociale, «All’epoca eravamo convinti che ci avrebbero potuto sgomberare anche ogni due settimane, ma non sarebbero mai riusciti a toglierci dalla testa la volontà di stare insieme come individui liberi». Il rizoma resiste, il rizoma non verrà mai cancellato.
Reportage a cura di Francesco Pattacini,
un grazie a Lorenzo, Lyle, Debs, Lupan e Strappa per il loro tempo e la loro accoglienza.