I figli sono finiti, o forse, non c’erano mai stati: Leggere, o rileggere, Walter Siti a partire dalla fine

Ho inaugurato il 2025 mettendomi in viaggio verso Milano, con in borsa l’ultimo romanzo di Walter Siti: I figli sono finiti. Si tratta di un recupero dell’anno appena trascorso: è uscito lo scorso aprile, quando ero appena rientrato in Italia. L’avevo acquistato e messo da parte per periodi in cui, diciamo, avrei avuto più voglia di leggere qualcosa di amaro, fidandomi della promessa del titolo, che prosegue nella serie a cui l’autore ci ha abituato: penso per esempio a Resistere non serve a niente o a Bruciare tutto, quest’ultimo già ambientato a Milano. La situazione internazionale con cui si è chiuso il 2024 mi ha fornito l’umore adatto, Milano il contesto: già otto anni fa, nel periodo in cui vivevo a Milano, avevo percepito nell’autore un newcomer che come me esplorava la città dove si era appena trasferito e cercava di carpirne i segreti. I due libri presentano alcune contiguità immediatamente percepibili: entrambi raccontano storie di personaggi che si muovono in ambienti non frequentemente associati alla città, almeno se consideriamo la sua visione più stereotipica fatta di passerelle, di aziende e di piazze che danno lustro al design italiano, di cui si sente in ogni caso la presenza all’ombra della Torre Unicredit di Piazza Gae Aulenti, che spesso appare sullo sfondo. Avevo molte ore da trascorrere in treno, bus e aereo, perciò l’ho finito in pochi giorni: anche stavolta, mi ha stupito la facilità di lettura della narrativa di Siti, al pari della sua capacità di scandalizzare in una pagina e amareggiare in quella dopo, senza farti perdere il sorriso, a tratti imbarazzato.

Foto Frank Chianese

Ero rimasto piuttosto sorpreso dall’annuncio di un nuovo libro di Siti, quanto lo ero stato all’uscita del precedente La natura è innocente: Due vite quasi vere, nel 2020. Si tratta di un libro che da molti punti di vista non aggiunge molto alla quadrilogia formata dai classici dell’autore, costituita da Troppi paradisi (2006), Il contagio (2008), Resistere non serve a niente (2012, vincitore dello Strega), e Bruciare tutto (2017). C’è molto riproporre e molto riesaminare in questo Siti, a partire dall’anziano protagonista Augusto, che ricorda molto da vicino l’alter-ego finzionale dell’autore – nominato anche en passant nel testo – che incontriamo in un momento di profonda crisi, segnato dal lutto coniugale e dalla sua corrispondenza simbolica nel collasso cardiaco che introduce la storia. Il libro è incentrato sul dialogo tra questi e il giovane eremita digitale Astòre – attenzione all’accento – che a sua volta ci fa pensare al Tommaso protagonista di Resistere non serve a niente, in quel caso un broker che aveva ribaltato le sue aspettative di vita grazie alla prossimità con le sfere più corrotte della finanza internazionale. C’è inoltre l’ambiente queer delle palestre che fa da sfondo allo show business di passerelle e studi televisivi, a cui Siti ci ha abituati da lungo tempo, nonché un certo sottobosco di piccola criminalità che si sovrappone all’ambiente multiculturale, che nei suoi aspetti più sregolati fornisce pretesti per alimentare l’odio e il razzismo dei connazionali. 

La parte del libro più difficile da attraversare è senza dubbio il primo capitolo, dedicato alla dolorosa vecchiaia del protagonista Augusto, un anziano sulla settantina da poco vedovo e fresco di trapianto di cuore di cui si esplora il lutto e la transizione chirurgica, insieme alla decisione di spostarsi in un appartamento più tranquillo nella zona di Brera. Ma si tratta di un’apertura in nero che introduce a una progressiva positività: in questa palazzina liberty di via Lovato, al riparo dalla glamorousness rumorosa di Milano, Siti ambienta l’incontro tra Augusto e Astòre, il nuovo inquilino che arriva sul suo pianerottolo, con cui incontra una peculiare complicità: da una parte c’è un corpo vecchio, stanco e malato che non sa privarsi dell’incontro con la realtà e del desiderio, dall’altro, un giovane cinico che vive nella convinzione di poter rinunciare a entrambi, partendo da un sostanziale rifiuto della fisicità. Nel mezzo, l’apparire di varie tipologie di sessualità poco conformi alla patina di perbenismo borghese che avvolge Milano, alcune digitali, altre tangibili, incluso il grande ritorno in scena dei “nudi” romanticizzati dall’autore, i classici culturisti a cui Siti non sembra voler fare a meno e che di cui troviamo alcune descrizioni ipertrofiche all’altezza di quelle più felici di Troppi paradisi, primo grande successo di Siti narratore. Da un altro punto di vista, l’ideologia è la stessa che aveva animato il successivo Il contagio, di cui Siti trasferisce il microcosmo delle case popolari delle borgate romane nel contesto socialmente più elevato delle palazzine della Milano bene.

Ogni volta che mi capita di leggere Siti, e I figli sono finiti non ha costituito eccezione, mi chiedo cosa penserebbe dell’Italia un lettore occasionale, se prendesse la sua narrativa come riferimento per capire cosa succede nel paese, con un approccio diciamo marxista al testo. Che è poi, non me ne voglia Siti, la stessa cosa che ci si poteva chiedere interpretando il paese dai lavori di Pier Paolo Pasolini durante gli anni Sessanta e Settanta. Continuo a riconoscere questo aspetto come comune ai due autori, nonostante i tentativi di Siti di prendere le distanze da Pasolini, dopo averne curato la monumentale edizione critica in dieci volumi per la collana dei Meridiani Mondadori, e tornandovi regolarmente – si veda, per esempio, la riedizione di Petrolio nel 2022, lo stesso anno che Siti ha riunito tutti i suoi studi sull’autore nel volume Quindici riprese. Entrambi descrivono l’Italia dai suoi margini, rappresentandone un punto estremamente periferico pur partendo dalla capitale, e diventano un riferimento per l’intero paese. Possiamo anche identificarli come un’eccezione che conferma la regola: nelle opere di entrambi incontriamo le molteplici identità, anche sessuali, che ci circondano, opponendo una grande apertura di prospettive alla parte maggioritaria della popolazione, che sembra continiare a essere legata ad ambienti dove razzismo, sessismo, omofobia e classismo proliferano abbondantemente e si amalgamano in un discorso comune e perverso, in cui poi ognuno nasconde comodamente qualcosa, secondo la più tradizionale ipocrisia perbenista. Si tratta ormai di un mondo che si rispecchia nell’intero vecchio continente in cui proliferano le destre autoritarie e sembra che il progressismo liberale regredisca piuttosto che evolvere, nonché negli stessi Stati Uniti che si preparano al secondo mandato di Trump. Perciò, con Pasolini come con Siti, da italiani ma anche da cittadini del mondo, a volte ci si trova di fronte a un paese che non ci sembra lo stesso in cui viviamo, un mondo quasi di fantasia. Eppure, non è necessariamente così, perché quel mondo esiste, ma la sua rappresentazione nei social media non è maggioritaria, se non nella popolazione più giovane.

In Pasolini, secondo me, va cercata la risposta alla mia domanda, rielaborata in quarta di copertina dei I figli sono finiti da Alessandro Piperno, critico intelligente e intelligente romanziere: Siti “è uno degli interpreti più intelligenti della contemporaneità”. Nel Romanzo, attraverso incontri e dialoghi coi personaggi che ruotano intorno a Augusto e Astore, che spesso si incontrano a loro volta, Siti rielabora la storia dell’Italia postpandemica, partendo proprio dai giorni dell’isolamento nel 2020 che tutti ricordiamo fin troppo bene. Ed è lì che sta il segreto di Siti: invitarci a ricordare ciò che non vogliamo ricordare. Affrontare il dolore piuttosto che rimuoverlo, riesaminare le parti più imbarazzanti delle nostre esistenti piuttosto che fuggire. Perciò mi è spesso venuto da accostare Siti anche a Philip Roth, un autore che certamente emerge dall’uso dei meccanismi dell’autofiction esplorati da Siti nella sua opera narrativa, di cui assorbe la capace di descrivere l’America nei suoi aspetti più alti e contemporaneamente più truci, come accade in American Pastoral ma già anche in Portnoy’s Complaint, un libro scritto quando Siti aveva appena vent’anni e si iscriveva alla Normale di Pisa. Come Roth e Pasolini, Siti mette in risalto le contraddizioni che emergono dall’ipocrisia con cui viviamo il mondo contemporaneo, le lascia emergere e confliggere sulla pagina, senza nasconderne lo choc. Anche I figli sono finiti ripropone il tema della vita osservata dall’esterno dall’autore finzionale/narratore, come lo Zuckerman nella American Trilogy, per chiarirci, superata dal format ormai consolidato dell’autore/narratore che si eclissa dal testo ma interviene nelle note a fondo pagina che è invenzione tutta originale di Siti. Il tema della doppia vita invece ci riporta al precedente, molto bello, La natura è innocente, apparso in un momento di interessanti esperimenti narrativi che hanno provato a incrociare realtà e letteratura: penso soprattutto al bellissimo Due vite di Emanuele Trevi, ma anche a La città dei vivi di Nicola Lagioia, per altri versi alla Straniera di Claudia Durastanti.

Ancora più radicalmente, come Pasolini, Siti capisce le cose perché ci vive in mezzo e non si limita a guardarle da lontano, vi si immerge non risparmiandosi di inquadrarle dallo stesso schermo totalitario che regola la vita degli italiani, quello della televisione: descrive un mondo di cui racconta il progressivo esaurimento, in questo libro contrapponendolo in modo più specifico ai nuovi paradisi artificiali promessi dei social media e dai contesti digitali in un ambiente in cui si coltiva il sogno di una vita postumana in cui “spariranno le distinzioni” di sesso, di classe, di genere, e dunque di una radicale inclusività. Siti guarda al futuro con distacco immaginandosi la prospettiva di un giovanissimo, alternando una visione cinica del presente in disfacimento senza lesinare commenti pubblicamente insostenibili sottolineando le colpe della propria generazione di fronte alla purezza battagliera di quella più recente. In modo più insistito che nei libri precedenti, la fisicità prorompente dei culturisti con cui i suoi personaggi si accoppiano si alterna all’esibizione di mondi di finzione che non sono più limitati ai salotti televisivi, ma descrivono un’umanità che rigetta in modo radicale, vietandosi il contatto umano, la propria fisicità. Siti descrive questi ambienti senza censure, attingendo alla volgarità dei personaggi che lo animano, partendo dai bassifondi per arrivare agli strati più alti della società, di cui descrive la natura effimera e superficiale. Al lettore a cui mi riferivo pocanzi, molto probabilmente l’Italia apparirebbe come un posto in cui la sessualità più disinibita ispira la vita pubblica, politica e sociale, aggrovigliandosi intorno ai meccanismi che regolano il potere e l’economia. D’altra parte, è un’idea che all’estero è piuttosto diffusa, quando si parla di italiani, e che è stata confermata dall’immagine di Berlusconi e della realtà televisiva che ha allestito per decenni: siamo sopravvissuti a Berlusconi, per dirla con altre parole, ma non al berlusconismo, nè al suo fantasma mediatico. Allora, forse, possiamo riconoscere in Siti la più autentica rappresentazione di quell’Italia, prossima a esaurirsi con quella generazione, e pensare che anche il mondo televisivo e quello di questo erotismo sguaiato e maccheronico siano destinati a lasciarsi assorbire dall’ondata del perbenismo puritano che assorbiamo a livello globale dettato dalle censure del perbenismo liberale. Seppure ci suggerisca anche che, probabilmente, questi nuovi “produttori di irrealtà” non costituiscano esattamente una nuova soluzione a problemi vecchi.

Per tutti questi motivi, ogni volta che Siti pubblica un romanzo e penso sempre che sia l’ultimo, comincio a provare una nostalgia anticipata: per la sua capacità – o forse, dovremmo definirla proprio libertà – di scrivere senza mezze misure cose che in molti pensiamo e che non si possono dire, pena l’ostracismo dal pubblico discorso. Il punto a cui voglio arrivare in conclusione, è che forse l’aspetto più italiano di Siti – quello che mi è mancato molto negli anni trascorsi all’estero, e che vivendo in Italia si tende a sottovalutare – è quella libertà di dire e pensare fuori dagli schemi che ormai solo Siti sembra riuscire a permettersi, che credo sia la sua qualità più dirompente e preziosa. Allora, mi viene da pensare che ogni libro di Siti, anche I figli sono finiti, che non mi è sembrato uno dei suoi più indimenticabili, sia un tesoro da custodire, e che Siti debba continuare a pubblicare romanzi per ricordarci che certe cose si possono scrivere, per ricordarci che le cose che non vorremmo vedere non spariscono quando smettiamo di nominarle, che la capacità di scandalizzare è un modo di proporre un fenomeno che nel suo stridere coi meccanismi sociali emerga come problema: qui penso non solo a Michel Foucault, ma anche a quel passaggio dei Comizi d’amore in cui Pasolini chiede a Moravia: “Tu ti scandalizzi?”. Forse, leggere Siti ci riporta al mondo in cui ci si poteva ancora fare domande scorrette senza essere censurati. E dire cose – e in I figli sono finiti se ne dicono tante – che oggi nessuno ha più il coraggio di dire.

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