Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Il Funeral Blues di W. H. Auden non fu scritto per nessuno. Non c’è nessun compagno morto che l’ha ispirato, nessuna straziante perdita, per nessuno bisogna fermare gli orologi, staccare i telefoni e chiudere i pianoforte. I versi vengono fuori da una tragedia che Auden scrisse nel 1936 con l’amico e amante Christopher Isherwood, poi musicati da Benjamin Britten. Strano pensare a come siano nati con l’intento satirico di rivolgersi a un politico morto, un piccolo gioco che prendeva in giro il tempo, e come poi si siano trasformati in questo tempo e nella nostra memoria, diventando parole scritte da un poeta al suo compagno morto. Soffriremo lo stesso dentro questi versi che sembrano devastanti e veri, ci impazziremo dentro e ululeremo con loro, ma suoneranno diversi nelle intenzioni per secoli nei secoli. Auden. Questa scoperta l’ho fatta per caso perché sono una persona piena di inutili curiosità, del tipo: ma questa poesia che ogni volta che mi capita sotto gli occhi mi tocca qualche corda profonda e mi sembra così urgente nel dire quello che vuole dire, per chi sarà scritta? Quale compagno di Auden l’avrà ispirata, che storia c’è dietro le parole, quando è morto il presumibile compagno, e come è morto, e cosa c’è dopo e prima le parole, perché sono diventate così potenti da entrare dentro la memoria prepotentemente, perché ce ne ricordiamo, continuiamo a cantarle come bestie disordinate, e non smettiamo di sentirne il rintocco, come fossero un avvertimento o una circostanza dell’umanità intera? Cosa c’è dietro questo imperativo di fermare orologi, telefoni, cani e pianoforte, che ci lega tutti disperatamente ad Auden? La presa in giro. E ho ammirato ancora di più la forza di quelle parole, che avevano scavato il tempo e si erano trasformate, assumendo una posa seriosa e dolorosa senza essere pienamente né serie né dolorose. L’altra cosa divertente è che neanche il titolo, Funeral Blues, è frutto di Auden. Non è un funeral blues questo canto atroce, ma che importa, questi versi suonano davvero come un funeral blues.
Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.
I due grandi amori di Auden sono Christopher Isherwood e Chester Kallman, nel mezzo c’è una moglie, una figlia di Thomas Mann, Erika, che Wystan sposò per consentirle di scappare dalla Germania nazista e donarle un passaporto inglese. I due non vivranno mai assieme, e non divorzieranno mai. Se Isherwood è soprattutto l’amico inglese e lo scrittore, Chester Kallman è l’incontro americano di Auden con un giovane poeta per cui perde letteralmente la testa. A Kallman scriverà in una lettera A Day for a Lay, il poema più osé del suo repertorio che racconta un pompino in rima. L’America era una terra sterminata di poeti all’epoca, e ai due capitò di incrociare anche il beat Allen Ginsberg, che preferì la scanzonatezza da chiavettiere del giovane Kallman alla posa di Auden. Tra Ginsberg e Kallman c’era un’affinità da spiriti liberi americani, ma tra Ginsberg e Auden non correva proprio buon sangue: nei loro incontri newyorkesi si scoprivano troppo diversi. Quando poi Auden mise in discussione Walt Whitman come il più grande poeta americano, per Allen Ginsberg il caso poteva considerarsi archiviato.
Walt Whitman era stato il cantore americano che aveva cantato l’America e sé stesso, ”accolgo la natura nel bene e nel male”, le ricciute foglie d’erba e il compagno di letto in un susseguirsi di vedo, ballo, rido e canto. Coi suoi versi Whitman diventa il padre della Beat Generation: per Jack Kerouac è il più grande poeta americano, per Ginsberg un’ispirazione. ”Gli americani dovrebbero conoscere l’universo come la strada”, scriveva il poeta dalla doppia W, che amava il verso libero e della metrica e della rima faceva a meno. Auden era un classicista a confronto di Whitman, persino il poema per un pompino seguiva un preciso schema alla vecchia maniera inglese. Walt Whitman è libero e sprezzante delle regole della poesia, riapre il discorso e butta giù le basi dell’Urlo di Ginsberg e degli haiku senza metrica di Kerouac. Nei suoi versi si sente impazzire l’America.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.
Anche Federico García Lorca nel suo viaggio in America aveva cantato la sua ode a Walt Whitman come un vero poeta americano che aveva scoperto in Walt un fratello lontano nel tempo. Si narra che a passeggio per le strade di New York Lorca abbia incrociato anche Hart Crane, entrambi ossessionati dal ponte di Brooklyn tanto da cantarlo in versi. La ciudad sin sueño che Lorca osserva dal ponte si incrocia con le visionarie albe insonni di Crane. ”Walt, dimmi, Walt Whitman, se l’infinito è ancora come / quando tu passeggiavi sulla spiaggia vicino a Paumanok”, canta Hart Crane, pensando a come cambi il tempo e in fondo resti uguale a sé stesso mentre l’umanità continua a vagabondare. Probabilmente lo spagnolo e l’americano non si incrociarono mai, anche se erano nati nello stesso anno e per un periodo avevano passeggiato per le strade di New York nelle stesse serate, alla ricerca di immagini da rubare, parole da sbattere sul taccuino e marinai delle albe. La forza tragica di Hart Crane lo portò al suicidio dopo un viaggio in Messico, il tormento a cui non sa sfuggire trova pace solo tra le onde dell’oceano Atlantico in cui si getta da una nave. L’altro poeta, lo spagnolo, viene assassinato da fucilate franchiste, e così la voce del cantore dei gitani viene fatta zittire dal fascismo spagnolo. Lorca dovette inventare le sue immagini per tutta la vita per non farsi strozzare il canto in gola dall’imbarazzo, dalla politica e dagli spiriti della famiglia, e ne vennero fuori delle meraviglie poetiche come il verde que te quiero verde e il llanto de la guitarra.
Ma la poesia non cerca seguaci, cerca amanti, e così un altro poeta spagnolo, Luis Cernuda, salutò il cadavere dell’amico Lorca coi suoi versi. Nel canto di Cernuda non c’è l’enfasi di Auden che vuol spegnere le stelle e smontare il sole, ma l’orgoglioso verso para el poeta la muerte es la victoria. La sensibilità di Cernuda era molto diversa da quella di Lorca, più simile a quella di un dandy girovago che canta i piaceri della carne, vitalista e ribelle. Mentre Lorca affrontava i suoi demoni privati cantando le minoranze e i diseredati della terra, i versi di Cernuda affondano sfrontati nella carne viva. Ci sono corpi come fiori e altri come pugnali, risuonano ancora nelle orecchie le parole di Cernuda come avide premonizioni sulla distanza che separa i corpi e li riaccende nei letti. ¡Maravilloso!, scrisse di lui Cortázar.
Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla può giovare.
”Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica”, in un’intervista esce fuori tutto il sentimento di fratellanza nei confronti dell’umanità di García Lorca. Nei gitani Lorca si specchia e vede sé stesso messo all’angolino come un dannato della terra, nelle umane sofferenze c’è la tortura viva sulla carne dell’immedesimazione e della compassione. I confini e le frontiere non esistono per i sentimenti. L’altro blues di Auden, quello dei rifugiati, fa i conti con queste inesistenti frontiere della terra che separano gli uomini. Nella poesia si ritrova l’umanità vagante, che attraversa le speranze da una parte all’altra del mondo, tutta l’America di Whitman, l’oceano Atlantico in cui si gettò Crane fino alle coste della Spagna, da dove partì la nave di Colombo in una rotta al contrario che guidò gli uomini alla scoperta e all’omicidio. Con chi andassero a letto i poeti non ci importa, resti sacrosanta la verità che hanno provato a raccontarci sull’amore. Anche grazie alla satira.
Se un poeta e un contadino analfabeta si incontrano, forse non avranno granché da dirsi, ma se entrambi incontrano un pubblico ufficiale, sono subito presi dal medesimo sospetto: nessuno dei due se ne fida minimamente. Entrando in un ufficio governativo, condividono entrambi la stessa apprensione: forse non ne usciranno mai più. Quali che siano le differenze culturali che li separano, tutti e due fiutano in qualsiasi aspetto del mondo ufficiale quel sentore di irrealtà entro il quale le persone vengono trattate come statistiche. Di sera il contadino giocherà a carte e il poeta scriverà versi, ma esiste un principio politico che entrambi sottoscrivono, ed è questo: fra le tre o quattro cose per cui un uomo d’onore dev’esser pronto, se necessario, a morire, il diritto al gioco, alla frivolezza, non è la meno importante. — W. H. Auden