Sono tante le stelle che brillano su di me, così tante che riesco a sentirle. Ascolto il loro bisbiglio, innumerevoli voci che mi sussurrano all’orecchio. Riesco a immaginare ciò che mi dicono. Porto il peso dell’intero universo sulle mie spalle. Tutti lo facciamo. Ne ho avuta conferma dall’esame neuronale di mia madre, quando ho visto scintillare centinaia di stelle nel suo cervello. L’intera spina dorsale della sua notte. Le minuscole lanterne che la proteggono dalla temibile oscurità.
Inverno del 2018. La madre di Nona Fernandez, prossima a compiere ottant’anni la seguente primavera, cade e sviene; una due, tre volte. Di quei momenti, di quegli attimi che seguono le prime vertigini, non ricorda più nulla, un buco nero le affolla la testa, le ruba un pezzetto di uno specchio che sembra sul punto di rompersi. Attimi insignificanti o preziosi scompaiono dai radar della sua memoria. A tutto ciò che in ciascuna vita ci dà forma e ci determina per ciò che siamo – quasi fossimo rocce sedimentarie levigate dal nostro passato – le viene sottratto per sempre e in maniera irreversibile un frammento misterioso di tempo.
Parte da qui Voyager, l’ultimo libro di Nona Fernández, classe 1971 che – dai suoi esordi e fino al più recente La dimensione oscura – ha voluto e saputo dedicare gran parte della sua attività di scrittrice al tema della memoria. E non è certamente un caso che questo sguardo così peculiare si sia manifestato in una scrittrice nata a Santiago del Cile nel 1971 – appena due anni prima del Colpo di Stato di Augusto Pinochet – e che in quella realtà ha consumato tutti gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Una delle tante dittature sudamericane della seconda metà del Novecento, certamente; eppure è altrettanto certo che il Cile, più di ogni altro tra i quei paesi travolti da oscene derive antidemocratiche, sembra tuttora la nazione che non smette di voler fare i conti con quella tragedia, come a manifestare un bisogno più urgente di elaborare – da una prospettiva artistica e quasi in termini psicanalitici – quel trauma per rimuoverlo e poter, infine, andare avanti senza più alcuna paura.
Mia madre perde i sensi. Senza preavviso, senza un motivo apparente, cade a terra di colpo e si disconnette per un breve momento. […] Quel breve momento di disconnessione rimane occultato in un nascondiglio del suo cervello. […] I buchi neri che ora vagano tra i suoi ricordi quotidiani la rendono inquieta più dei lividi che eredita ogni volta che sviene.
Voyager prende il nome dalle sonde che, a partire dal 1977, furono messe in orbita per l’omonimo programma spaziale degli Stati Uniti d’America con lo scopo di registrare la maggiore quantità di informazioni allora possibili sui giganti gassosi del sistema solare, ed è la stessa Nona con la sua “vocazione da drone meticcio che non fa altro che osservare e prendere appunti“ a trasformarsi nella stessa sonda che pare evocare attraverso la sua scrittura. È ancora lei che raccoglie indizi e ne legge con fantasia letteraria e spirito critico tutte le possibili connessioni. Voyager ci lascia accedere a una sorta di Big Bang cui provare a dare ordine – come in un ciclo vitale che partendo e giungendo alla famiglia: prima la madre, quindi il figlio adolescente – compie un percorso capace di inserirsi nella cornice della storia del proprio paese e che, al contempo, prova, soprattutto, a interrogarsi sulla natura profonda dei ricordi e su come rappresentino la materia stessa di cui noi tutti siamo fatti.
Come la sonda nello spazio, ecco che la scrittura di Fernández evoca paesaggi stellari procedendo lungo una via lattea costellata di metafore che s’incatenano l’una all’altra, mescolando l’intrico dei reticoli neuronali della madre con le leggende affascinanti degli amerindi mapuche.
Tutto si riconduce ad aver pensato in modo diverso. A morire per aver pensato in modo diverso.
In uno dei possibili centri cui ridurre l’infinito universo, Nona riunisce l’esperienza personale e privata non soltanto con quella storica e collettiva ma proprio con il firmamento che fa da specchio alle possibili connessioni umane. È, infatti, in uno dei luoghi privilegiati per l’osservazione delle stelle – il deserto di Atacama lungo l’area costiera nord occidentale del Cile – che Nona partecipa a una cerimonia in onore di ventisei abitanti della cittadina di Calama, assassinati e fatti scomparire dalla Carovana della Morte. È qui, in una notte che si fa progressivamente sempre più fredda, che Nona Fernández ricuce i fili del racconto in una cerimonia della campagna Constelación de los caídos voluta da Amnesty International per rinominare altrettante stelle con i nomi delle vittime e che pur nell’impossibilità dell’operazione – per l’opposizione dell’Unione Astronomica Internazionale – saprà consegnarsi, comunque, alla sacralità di un rito collettivo mostrato, tra le pagine, in tutta la pienezza della sua necessarietà.
Se abbiamo presente che tutto quello che osserviamo nel firmamento fa parte del nostro passato, dovremmo dare per certo che nel deserto di Atacama abbiamo il più importante portale del pianeta per viaggiare nel tempo. Che se ne osservi la superficie o il cielo, qui troviamo la porta d’imbarco per un viaggio verso tutto ciò che è già accaduto. La casella di partenza del gioco irresistibile. Cosa accadde qui? Come? Quando? Perché? La magia neuronale per accendere stelle e ornare i ricordi del pianeta.
Ecco allora che quel ricordo – raccontato qui nella singola storia di una donna ormai anziana cui hanno strappato via il marito – si coniuga dentro una sorta di imprescindibile riconoscimento pubblico, unica possibile soluzione a un trauma che trova non un senso ma quantomeno una ragione cui sopravvivere – verrebbe da scrivere da accettare se esistesse anche una sola possibilità di guardare l’orrore – soltanto dentro un ricordo cui non essere sopraffatti, nella minutezza del proprio essere individuale e del dolore privato, all’interno di una presa di coscienza collettiva capace di tenere insieme un popolo, la Storia e la natura silente che ci guarda innocente.
Una biblioteca può essere anche un pezzo di cielo. Memorie che viaggiano infrangendo le leggi del tempo per giungere nelle nostre mani, nei nostri occhi, nel nostro cervello, nella nostra coscienza. Per quanto ne sappiamo, siamo l’unica specie del pianeta che ha avuto il bisogno di accumulare memoria al di fuori del cervello. […] una vera e propria battuta di caccia per riscattarli dall’oblio e aggiungerli uno per uno come tessere di un rompicapo, a quello specchio rotto in cui da sempre abbiamo cercato di guardarci.
Voyager di Nona Fernández finisce proprio con l’assomigliare alla sonda di cui porta il nome: mentre raccoglie ciò che osserva, lascia allo sguardo della scrittrice e a quello del lettore l’opportunità di trasformare i dati attraverso il filtro della propria esperienza, la vertigine dei sogni e il potere magico e salvifico della letteratura.