Sono seduto sul divano della mia camera. Sento provenire dall’esterno i rumori delle auto che percorrono il viale. È la fine di agosto, il caldo umido entra nelle ossa e ti toglie la voglia di vivere. Lasciare porte e finestre aperte è d’obbligo. Quattro mura mi tengono chiuso in una dimensione composta da un letto, un armadio e una piccola scrivania. Due delle quattro pareti sono tempestate di libri, ma ancora non è giunta quella fase in cui si percepisce l’odore della carta a distanza di metri. Sulle restanti due ci sono foto incorniciate e collage fatti con i ritagli di giornale, per lo più gente del cinema e della musica – con l’unica eccezione di Bill signormicrosoft Gates. Preso dalla noia di fine pomeriggio inoltrato, inizio a leggere un libro che avevo in programma sin dalla sua uscita. L’ammirazione e la stima per il suo autore mi accompagnano da un po’, e negarlo sarebbe una vigliaccata bella e buona. Tra le tante cose, questa è stata l’estate in cui ho riascoltato per settimane il suo ultimo album in studio, ovvero Push the Sky Away (2013) firmato con i Bad Seeds, sua inseparabile band. Prendo il libro e inizio a leggerlo come si fa con le cose rare che aspetti da tanto e che finalmente riesci a maneggiare. Ci metto una cura maniacale, attento a non stropicciare nemmeno lontanamente una delle pagine. Quando si tratta di Nick Cave, di qualsiasi cosa che porti il suo nome, un suo riferimento, la mia mente dona una smisurata attenzione, vigile sul fatto di cercare quanto sia lodevole ogni sua goccia di saliva sputata tra una sigaretta e l’altra.
Come dicevo, The Sick Bag Song (Bompiani, trad. Chiara Speziani) è uscito qui in Italia nel mese di giugno, come a voler dare una buona motivazione per essere portato in vacanza dai lettori e dai fan del cantautore dalla folta chioma nero corvino. Sono 176 pagine che si leggono in un solo pomeriggio. Prima di sedermi su questo divano gli ho dato una sbirciata. Ho letto giusto qualche pagina per percepire in anticipo il clima di quello che stavo per affrontare. Nel frattempo, oltre al sottofondo composto di auto che percorrono in lungo e in largo il viale sotto casa, ha fatto il suo ingresso il classico ronzio di un ventilatore a quattro pale prodotto negli anni novanta da chissà quale azienda del nord. Gira seguendo lo stesso ritmo con cui avanzo nella lettura. Questi di Cave sono pensieri raccolti in poche righe. Proseguo con la testa rivolta verso il basso, sento il collo reclamare la sua postura ideale attraverso la contrazione muscolare. Forse esagero, non sono mica il Giacomo Leopardi della situazione, eppure Nick Cave sembra quasi esserlo. Nelle pagine bianchissime rilegate in questa edizione quasi scintillante c’è un unico grande protagonista che si fa largo tra le migliaia di parole battute al computer. È il dolore che si materializza e che vive oltre le apparenze, oltre i palchi calpestati da un uomo che sfoggia i migliori abiti confezionati dello stato. Abiti che non brillano per le luci dei riflettori sparate a mille, ma per quel male di vivere che dentro si è annidato negli anni. Se mai dovessero chiedermi chi riesce a brillare di luce propria attraverso il dolore accumulato nel tempo, io farei il suo nome senza rifletterci sopra.
The Bag Sick Song è la somma di sentimenti ed emozioni raccolte durante il tour del 2014 svolto nell’America del nord, Canada compreso. Sono visioni che si uniscono alla realtà fino a soccorrerla nei momenti di bisogno, quando la sua fisicità perde forma e andare avanti diventa parecchio difficile. Mentre leggo invio alcuni screenshot delle pagine a Gio e Fabio. Lo faccio per stuzzicare la loro attenzione, conscio del fatto di trovarmi davanti due di quei fan pronti a tutto pur di assicurarsi qualcosa del proprio idolo. Viva le chat di gruppo, penso. Si parte da Nashville, Tennessee, per finire il viaggio fatto di immagini e corse di notte alla ricerca di ristoranti con la cucina ancora aperta a Montréal, Québec. Una lunga schiera di aeroporti si susseguono nel mezzo, permettendo al cantautore maledetto di collezionare una certa quantità di quei classici sacchetti per il vomito consegnati dalle hostess prima del decollo. Ho la copertina lucida tra le mani. Scorro le pagine intervallate dalle immagini scansionate dei sacchetti scritti a mano con grande energia, come se Nick Cave stesse servendo il suo piatto forte ad un amico con una smodata fame di parole. Annotazioni, pezzi di strofe improvvisate sul momento e riflessioni di vario genere. Sono tutti della stessa misura, i sacchetti. Bianchi con la scritta della compagnia aerea che campeggia sul retro della carta. Per nostra fortuna Nick Cave vomita nei vicoli bui in cui si aprono le uscite secondarie dei locali in cui si esibisce, altrimenti non avremmo alcun gioiello di scrittura tra le mani. Draghi, una ragazza che lascia intravedere i suoi slip sotto coperti da una gonna prima a stelle e strisce e poi con una grossa foglia di acero sopra, un’altra decapitata in seguito ad un incidente, e un ragazzo che compare puntualmente quando meno te l’aspetti. Sua moglie, i taxi, la band, il resto dei corpi ancora decapitati e i suoi nove tormenti. Numerologia e disperazioni su per il culo, si direbbe. È un continuo vedersi riflesso nelle parole che egli stesso sta scrivendo in giro per una parte del mondo che ha fatto la storia della musica. Patti Smith, Leonard Cohen, Lou reed e Johnny Cash. Alcuni pensieri sono rivolti a loro. E ancora l’irrompere di punto in bianco di The Butcher Boy, vecchia ballata inglese dall’impronta struggente. Dove sei, Nick Cave? A Minneapolis? A Denver? No. Nick Cave è in ogni sick bag preso sugli aerei che lo rimbalzano di qua e di là per lo stato.
Faccio una pausa. Dal divano mi trasferisco in veranda. Nick Cave è una di quelle persone che anche quando ti racconta qualcosa, anche quando scrive, fuma circa mezzo pacchetto di sigarette. Penso alle sue descrizioni auree di creature con sembianze che vanno da quelle di un animale mitologico a quelle di una donna. Incontra le sue muse ovunque. Nei letti, sotto i palchi, per la strada o in un ristorante dimenticato dalla notte che avanza in direzione della sua morte. Riprendo in mano questo secchio colmo di vomito; dentro ci trovo qualsiasi cosa. Ricompare il solito ragazzo, quello che aspetta sul ponte di legno nella boscaglia, quello a cui è dedicato l’intero libro. I sogni del ragazzo sono gli stessi di Cave. I due si sognano a vicenda, ma non si incontrano mai sul serio. Queste parole formano un’intera ed immensa canzone, penso. Le parti trascritte, le sensazioni e le visioni che si spingono oltre ogni limite sono le strofe di uno spettacolo costruito sul dolore scaturito dal vivere i giorni. Nick Cave sta spolpando il disagio della condizione umana e lo sta mettendo sulla miglior carta a basso impatto ambientale, penso ancora. È Nick Cave a dirmi che quel ragazzo è proprio lui da piccolo, quando non faceva altro che pensare al futuro e a tutto quello che avrebbe fatto di lì a poco. E quel ragazzo, invece, allo stesso tempo consapevole dei propri sogni, dei propri desideri, ammira quello che diverrà della propria vita. La dimensione temporale si distorce, o meglio, si annienta, e ripropone il tempo senza più una ragione, senza più un filo logico, mettendo uno davanti all’altro, concedendo ad entrambi la possibilità di studiarsi e ricordarsi per qualche istante.
Sono quasi alla fine di questo viaggio caveiano. Nick mi porta nella fangosa Glastonbury, come la ama definire. Siamo nel 1998 e i fulmini non smettono di cadere dritti dal cielo. Un temporale avvolge l’intera zona. Camminiamo per il pantano che caratterizza uno dei festival più famosi al mondo. Tra una roulotte e l’altra intravediamo la sagoma di un uomo incappucciato salire su una di quelle barchette disposte sulla riva. Dopo un po’, con fare da sbruffone, lo vediamo raggiungere la sua meta. Ha un naso enorme, è strabico e ha il mento paffuto. Si avvicina a Nick e tira fuori dalla manica della giacca la sua mano fredda e bianca. Ehi, mi piace quello che fai, dice rivolgendosi a Nick. Anche a me piace quello che fai, risponde Nick in preda ad una sensazione prossima alla morte. Bob Dylan ritrae la sua mano e riprende a camminare per la sua strada, scomparendo nella fitta pioggia. Proseguo ancora per qualche altra pagina, poi il vuoto mi sorprende quando chiudo definitivamente questo pezzo di vita, questo pezzo di cuore lasciato cadere nelle mie mani completamente sconosciute al suo autore. Riscrivo a Gio e Fabio e chiedo qualche giorno per pensarci su, qualche giorno per riprendermi dal colpo sferrato da quest’uomo assetato di sangue come solo i vampiri lo sono. Temo per le sensazioni a caldo, eppure mi sbaglio. Sono ancora seduto sul divano, ma invece di leggere penso a tutta la grandezza di questo artista e alle sue camicie sudate dopo ogni esibizione. Il liquido sprigionato dai pori che si deposita sul tessuto lasciando grandi chiazze scure è l’incommensurabile risultato di una battaglia con il dolore e l’intenzione di farsi portavoce dello stesso, amplificando il raggio del suo operato fino a mostrare le condizioni fragili di ogni vita che resiste sulla crosta di questo mondo. The Sick Bag Song è rabbia e misticismo, amore e sesso, giorno e notte. The Sick Bag Song è vita e morte, e noi altri, nel mentre, restiamo testimoni inermi di un disperato scorrere del tempo.
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