Nelle pagine di questo giornale abbiamo sempre cercato di scrivere di indipendenza, partendo nella nostra analisi sicuramente dalla musica indie di stampo anglosassone, ma cercando anche di prenderne le distanze quando essa, pur mantenendo una coerenza stilistica con la scena, finiva per svuotarsi del suo significato di rottura.
Indipendenza nella musica come nelle arti, ma anche negli stili di vita.
E proprio a causa dell’indipendenza di cui è intrisa la sua vicenda che vi propongo la storia di un musicista profondamente lontano dallo stile che spesso trovate proposto su queste pagine, essendo peraltro piuttosto lontano nel tempo.
Durante la sua formazione classica, nei pomeriggi passati verso la fine della seconda guerra mondiale per le viuzze della cittadina di provincia, il dott. Camardese impara a strimpellare la chitarra forse per accompagnare i fratelli Carmine e Mario rispettivamente alla batteria e alla chitarra, forse perché un qualcosa pur si doveva fare per ammazzare i pomeriggi. Nella totale assenza di precettori interpreta lo strumento come meglio gli riesce ed è così che per ovviare alla mancanza di accompagnatori contrabbassisti fa di necessità virtù ed inizia ad accompagnare le linee melodiche con delle linee di basso suonate in maniera percussiva.
Nasce il tapping.
Sì proprio quello di Van Halen, solo che suonato su una chitarra classica di stampo jazz e senza canotte fosforescenti e capelloni vaporosi.
Bene e allora perchè non ne avete sentito parlare prima?
Perchè si attribuisce l’invenzione del tapping ad un tamarro di Amsterdam che ha dato buone basi per gran parte della peggior musica che sia stata prodotta tra gli 80 ed i 90 (per non parlare dei paesi scandinavi che ancora oggi ne sono ghiotti)?
Semplice, Camardese nella sua vita è stato un medico; certo, un medico che preparando le lezioni per le sue docenze universitarie, lo faceva mettendo i libri sul leggìo e la chitarra sulle ginocchia, ma pur sempre un medico; punto.
Allergico alle registrazioni come ogni buon jazzista vecchio stampo, era un amante puro della musica suonata; raramente il suo talento è stato documentato.
Eppure era grande amico di Chet Baker, il quale nei suoi passaggi europei non mancava di andare dall’amico Vittorio per interminabili jam session notturne nella casa di Roma Nord e lo stesso Baker in alcuni carteggi ritrovati dopo la morte di Camardese gli scriveva in un italiano stentato “io spero che tu continua a suonare vostra guitare perchè ha un sacco di talento senza altro“.
Pare che avesse una paura enorme dell’aereo e per questo declinava i numerosi inviti ad andare a suonare negli Stati Uniti. Insomma uno che l’industria discografica non sapeva manco dove stesse di casa. Eppure che musicista che era!
Lo si può ammirare in un paio di registrazioni degli archivi Rai come quella in cui partecipa molto timidamente e con il fare da uomo per bene al programma Chitarra, amore mio, condotto da Arnoldo Foà.
Suona strano in un’epoca in cui tutto è archiviabile, archiviato ed elencato, scoprire storie come questa, nascoste dalla riservatezza schiva di un professionista d’altri tempi che non ha lasciato molti segni tangibili del suo passaggio che pure resta un vivido ricordo nella memoria di personaggi che nella storia del costume moderno ci sono e come (oltre Chet Baker, Camardese ebbe a frequentare i più svariati musicisti dell’epoca da Irio De Paula a Renzo Arbore, da Tony Scott a Piero Angela), ricordi che la regista conterranea di Camardese Vania Cauzillo ed il cantautore romano Roberto Angelini che proprio da Camardese imparò i primi rudimenti chitarristici stanno cercando di raccogliere in un film che vorrebbe collocare al posto che gli spetta nella storia della musica, un musicista d’altri tempi rimasto puro e distante dalle regole discografiche.
Con buona pace di quel tamarro di Van Halen!
Errata corrige:
Il Van Halen di Amsterdam non è il succitato Eddie, che è di Nijmegen, ma il fratello Alex, che dei Van Halen era il batterista.
(Grazie a Ric Lip per averci segnalato l’errore)