Mi chiamo Bonfiglio Liborio e sono un cocciamatte

È una sera d’agosto del 1926 quando, nel bel mezzo di un acquazzone con la pioggia che scende giù a secchiate, Bonfiglio Liborio fa il suo ingresso nel mondo. Un evento, questo, che racconta lui stesso, Liborio, molto tempo dopo e lo fa presentandosi da subito come cocciamatte, termine abruzzese con cui si indica una persona ai margini, che forse vive in un mondo tutto suo. Più esplicitamente il cocciamatte coincide con il matto, lo scemo del villaggio.

La vita di Liborio, sguarbugliata e piena zeppa di fatti, attraversa praticamente tutto il Novecento per arrivare poi, quasi in un’atmosfera da sogno, fino agli inizi del Duemila e, una parola dopo l’altra, riempie visivamente la pagina proprio come fa col cuore di chi la legge, grazie alla scrittura fiume di Remo Rapino, insegnante di filosofia e poeta, al suo primo romanzo con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax).

Io ci penso pure alla mia di morte, ma poco, una chicca di cane, ma mò non ci voglio pensare, che prima devo finire di scrivere questa storia mia di cocciamatte, ci vuole il tempo che ci vuole che ottanta anni non sono pochi pure se sono passati come un fulmine senza che me ne sono accorto, e pure la mano è quella che è.

Liborio di cognome fa Bonfiglio, che è lo stesso cognome di sua mamma, Maria, perché lui un papà non ce lo aveva. C’era stato sì un padre da cui, stando ai racconti della mamma, aveva preso gli stessi occhi. Quel padre c’era stato e poi se n’era andato, in America o chissà dove.

Un’intera vita trascorsa a sperare di incontrarlo, quel padre che li aveva abbandonati. Una mancanza che si acuisce quando vengono a mancare mamma Maria e nonno Peppe. Liborio si ritrova da solo, come si era sempre sentito, a fare i conti con la vita, l’amore, la povertà, lo stigma di essere considerato lo scemo del villaggio, quello goffo, un po’ tardo, fatto a modo suo.

Che ne posso sapere io che non l’ho visto mai e mai ci ho parlato. Io sono venuto dopo. A me mia madre mi diceva che avevo gli occhi uguali ai suoi. Questo solo so. E fin da quando ero nu guaglione piccolo piccolo, e poi pure da più grosso, ogni volta che passavo davanti a uno specchio o una vetrina, sempre mi guardavo, ma solo gli occhi mi guardavo, per cercare di capire come era fatto mio padre, almeno la sguardatura, il colore almeno degli occhi suoi.

 

Liborio che fa un figurone all’esame di licenza elementare, non sbagliando neanche una risposta. Bonfiglio Liborio che, nell’aprile del 1945, quando successe una cosa grossa e bella per davvero e c’era anche la banda che suonava Bella Ciao, si innamora di Giordani Teresa, bella che rideva forte, nella sua gonna a fiori e con la coda di cavallo. Teresa, che appariva e scompariva in quell’estate della vita di Liborio, fino a che non arrivò una cartolina dall’Alta Italia in cui c’era scritto che doveva partire soldato. Si sentiva solo Liborio, il suo amore non era ricambiato e doveva mettersi su un treno e partire.  

Liborio, sempre solo, ma mai totalmente solo. Nel bene e nel male, Liborio nella sua vita ha avuto sempre qualcuno a fargli da guida: sua madre e suo nonno, l’amatissimo maestro Romeo Cianfarra, il mastro barbiere che lo ha preso a bottega per qualche tempo, l’amico conosciuto sotto il militare.

Remo Rapino ha dato vita a un personaggio a cui è molto facile affezionarsi, un uomo che lungo quell’ottantina d’anni vissuti pienamente da cocciamatte non ha mai trovato davvero il suo posto nel mondo, ma che è capace di portare dentro tutta quelle incertezze, che sono anche le nostre, tutte quelle paure, senza fermarsi mai. Viaggia. Lascia il paese, Lanciano, prima per prestare il servizio militare in Emilia Romagna e poi per lavorare alla Santa Rosa, dove si fanno le marmellate. Attraversa la Storia, Liborio: il fascismo, le adunate, la seconda guerra mondiale e i bombardamenti, Monarchia o Repubblica, il Sessantotto e tanto altro. La sua stessa vita racconta i fatti storici attraverso il suo guardo unico e l’andatura sghemba che si porta appresso per tutta la vita.

In cielo brillantava un’ammucchiata di stelle che faceva paura e ti toglieva il fiato, io le guardavo a bocca aperta e mi mettevo a contarle una a una, così mi ricordavo di quando ero piccolo che a scuola volevo trovare il numero più grande del mondo e facevo sorridere quel simpatico del mio maestro Cianfarra Romeo. Quella era la mia guerra, con le stelle e con la luna se c’era la luna.

Le parole di Liborio, così serrate e attaccate alla vita, come se quella stessa vita volessero mangiarsela a morsi per dimostrare che lui è più di un outsider, di un cocciamatte deriso da tutti,  accompagnano chi legge in un viaggio letterario in cui si soffre, si ride, si bestemmia e ci si commuove. Momenti estremamente realistici danno il cambio ad altri estremamente lirici e in entrambi i casi non ci si può fare altro che affidarsi alla narrazione di Remo Rampino per scoprirla finalmente questa Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio e ripercorrerla tutta, in ogni suo singolo anno dal lontano 1926 fino al 2010.

Il primo romanzo di Remo Rapino, già scrittore di racconti e poesie, quest’anno è stato nella dozzina al Premio Strega ed è attualmente in lizza nella cinquina del Premio Campiello. A prescindere dai premi, alla storia di Bonfiglio Liborio voglio augurare tutta la fortuna del mondo.

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