Daniel Walker è il protagonista del nuovo libro di Stefano Scanu, “Vita annotata di Daniel Walker”, Giulio Perrone editore, storia di una idea e della passione che la anima ambientata nel XVIII secolo in Inghilterra, a Dartford. Walker, mastro cartaio, consuma la sua esistenza per la professione che ha scelto, la dedizione lo divora e nulla ha più senso se non la carta che produce. Siamo nel 1755, Daniel si forma seguendo il mestiere del padre e nemmeno il nuovo mondo lo separerà dal suo destino. Lavora con fibre e chimica per raggiungere l’eternità, ma non lo fa per il guadagno: una vita, la sua, animata dalla sete di sapere e sperimentare fino all’approssimarsi alla perfezione. Scanu mette insieme nelle sue pagine una nuova biografia marginale eppure straordinaria e ne racconta lo scopo ultimo che modella l’intero destino, fino a che Walker non si consuma sulla stessa carta che ha contribuito a creare. Questo è un romanzo breve in cui le parole vengono soppesate e la cura è tale che persino i titoli dei capitoli sono complessi e inusuali. Con l’autore parliamo, allora, del romanzo, la sua genesi e la costruzione del lavoro di scrittore che celebra vite marginali dimostrando che sanno essere perfetti centri narrativi.
La genesi del romanzo. Perché proprio Daniel Walker e la sua carta? Come sei arrivato al personaggio?
Per gradi: anni fa scrissi un libro che raccontava i luoghi inquieti del mondo e prima ancora una sorta di guida delle sale cinematografiche come spazi identitari, poi ho realizzato che in questo modo stavo mappando e tracciando un’architettura di spazi che ciclicamente lasciavo disabitati. Così ho cominciato a interessarmi a piccole biografie sconosciute, vite appartate ma con una forte volontà di autoaffermazione, insomma qualcosa e qualcuno con cui popolare quei luoghi che raccontavo. L’ho fatto elencando, catalogando e annotando, in modo da creare dei racconti simili a liste, tenendo sempre conto che le cose cominciavano ad esistere nel momento esatto in cui le nominavo fissandole sulla pagina, proprio come faceva Cristoforo Colombo nel suo inventario di un mondo vergine. A quel punto le domande sono arrivate da sole: quanta vita ci sta in una pagina? Quanta sparisce fuori dai bordi, tra le pieghe? “Vita annotata di Daniel Walker” è la risposta a queste istanze, una osmosi sincronica tra vita narrata e vissuta, tra il corpo del protagonista e quello della carta su cui vive. La vita e la carta, questo intreccio organico di due realtà che crescono, subiscono e invecchiano allo stesso modo mentre si raccontano e usano a vicenda. Il mondo e gli elementi sollecitano entrambi e un pensiero crescente di marcescenza li dispera e ossessiona alla stessa maniera. La carta racconta Daniel mentre Daniel la crea; contemporaneamente Daniel consuma le pagine man mano che la sua vita avanza, consumata dalla carta stessa. Una storia speculare di due esistenze che nascono insieme, una superfetazione narrativa che mette in crisi la mia stessa idea di letteratura, di creatore e parassita, carnefice e vittima.
Quella di Daniel è una storia di ossessione, di ricerca dello scopo. Daniel inizia a lavorare nella cartiera «in felice cattività», studia, sperimenta fino ad arrivare al sospetto e a un’aspra disputa per difendere il suo lavoro. Possiamo dire che quella di Daniel Walker è una vita annotata di ricerca sul senso del sé e del perfezionamento di questa identità?
Daniel definisce se stesso attraverso ciò che produce, la carta è la sua cosa e contemporaneamente anche la sua estensione sul mondo; in una formula si potrebbe dire che diventa ciò che è attraverso ciò che fa. Vive in un’epoca a cavallo tra l’esplosione del pensiero illuminista e la rivoluzione industriale, in un mondo che non assomiglia più a quello in cui si è formato il padre, dove le domande e le grandi questioni filosofiche ridisegnano la società e le esistenze che la compongono. In questo contesto di cambiamenti e ricerca, Daniel non trascura i dubbi, anzi li usa come mezzo per arrivare alla conoscenza, lui stesso si pone letteralmente sotto la lente di un microscopio rinchiudendosi in una stanza di vetro, un laboratorio in cui consuma la sua deliberata reclusione a colpi di prove ed esperimenti. Non si risparmierà su nulla e ciò porterà in superficie ogni aspetto della sua personalità, fino alla manifestazione (o allucinazione) di un altro sé che lo confonde e lo ingaggia, una presenza che sembra uscita fuori da un foglio di carta carbone: simile a lui ma più scura e ambigua.
Le storie ordinarie. In passato hai scritto di vite marginali (“Come vedi avanzo un po’. 15 biografie marginali”, Italo Svevo edizioni), di luoghi «fuori posto» (“Il disordine del mondo. Piccolo atlante dei luoghi fuori posto”, Ediciclo). Che Daniel Walker e la sua Dartford rientrino, in qualche modo, in quelle vite e luoghi che hai chiamato “avanzati” e che hai reso degni di essere raccontati con la scrittura?
La marginalità di alcune vite e di alcuni luoghi mi ha sempre interessato, più che il centro del palco ho spesso preferito gli angoli, le storie defilate, quelle periferiche che vivono sull’orlo della scena o dalla pagina, penso che la loro ragione stia tutta in quell’equilibrio tra il mostrarsi e il sottrarsi. Per semplificare le ho chiamate avanzate, avanzate da e verso qualcosa, vite e luoghi che erano di troppo e che hanno fatto dei resti la loro sostanza e il loro scopo. In questo contesto il protagonista del libro, Daniel, si ascrive perfettamente e in un certo senso sviluppa l’idea: l’ossessiva e infinita costruzione del foglio su cui raccontare la propria vita è un atto assertivo che il personaggio compie per sfuggire alla forza centrifuga della narrazione che lo avrebbe inevitabilmente spinto verso i margini. Daniel concepisce il proprio centro, la propria storia e la propria carta come farebbe un artigiano; crea il mondo che lo contiene, confeziona i confini e i bordi del foglio su cui esistere, lo amplia e lo taglia a seconda del bisogno e del desiderio così come fa con il tempo del racconto e della sua vita. La parola, il foglio su cui esiste, il tempo, tutto è materia, tutto cresce e deperisce.
La scrittura come lavoro d’artigianato e ricerca proprio come quello di Walker. C’è una ricerca storica, ma anche linguistica e una posatezza nella tua prosa che sul finale si acutizza con la vita annotata di Walker su un foglio di due facciate condensato, per poi sfumarsi col finale. Come si sviluppa il tuo lavoro di scrittura?
Un altro livello del romanzo è proprio quello linguistico. Ho provato a restituire quella matericità di cui parlavo anche attraverso il linguaggio, la carne, la grana e la fibra delle parole, non so se se ci sono riuscito. Ad ogni modo ho affollato la pagina di verbi, aggettivi, di nomi e suoni che si accavallano, spesso superflui, sistemati in modo da essere disturbanti e tormentare la lettura, spingerla per evitare che proceda in modo automatico. Parole e suoni schiacciati, compressi tra i margini del foglio oltre cui c’è il baratro narrativo e non si può più essere raccontati. Via via che il romanzo procede il respiro cambia, le parole si riducono, si fanno più rade, necessarie e misurate, è l’effetto di una spinta alla sopravvivenza o forse il canto di un’agonia, fatto sta che verso la fine tutta la vita del libro si condensa in una nota concitata e risolutiva.
Una vita sulla carta. Quanta vita ci sta sulla carta? Le storie scritte come quella del tuo personaggio devono essere sempre metafore alte del tutto o bastano a se stesse?
Non ho mai pensato a questo libro come a una metafora o a una rappresentazione. Nelle mie intenzioni sia Daniel che la carta sono esistenze intrecciate, avvitate una all’altra ma in ogni caso autonome e in grado di restituire il proprio senso originale. Per ciò che riguarda quale e quanta vita ci sta sulla carta, oggi più che mai non saprei rispondere, più leggo e scrivo e più perdo la capacità di fare stime al riguardo, posso solo citare parte di una lettera che Hernán Cortés scrisse all’imperatore Carlo V, e che in appena ventidue parole fa intuire le potenzialità che stanno tra due margini:
Avevano contato ottanta cavalli e ottocento uomini e dieci o dodici fucili, e avevano rappresentato tutto questo su un pezzo di carta.