“Vie di fuga” è l’esordio letterario di Naomi Ishiguro, giovane autrice britannica dal cognome tanto scomodo quanto fortunato (suo padre è il premio Nobel Kazuo Ishiguro), in Italia pubblicato da Einaudi nella traduzione di Margherita Emo. Una raccolta di racconti con un tema portante estremamente contemporaneo: Ishiguro, infatti, mette insieme storie di uomini e donne intrappolati dalla quotidianità, dai loro pensieri o persino da elementi fantastici, tutti alla ricerca di una via di fuga per sopravvivere. I mezzi per la fuga da queste trappole reali o mentali sono spesso non convenzionali, a volte simbolici, ma sempre, in parte, salvifici. Nove racconti con voci narranti quasi sempre maschili, eccezione fatta per “Il tetto piatto”; diversi i contesti: dalla spiaggia soleggiata di Brighton alla Londra più claustrofobica, con una incursione nel mondo fantastico dei tre racconti sull’Acchiapparatti, una favola moderna fortemente simbolica le cui parti sono distribuite a distanza nella raccolta. Ishiguro si ispira a George Saunders, Neil Gaiman e alla maestra del genere, Angela Carter, della quale mantiene la propensione all’elemento fantastico pur con toni meno politici. Il mondo di Ishiguro è lieve e riflessivo, un realismo magico, il suo, fortemente legato alla tradizione fiabesca tanto quanto al mondo contemporaneo che Ishiguro vive come giovane autrice. E in questo mondo la scrittrice inserisce ragazzini alla ricerca di poteri magici in sé e negli altri, l’accesso a realtà parallele o stormi di uccelli che comunicano con una donna in difficoltà. L’unica fuga dalla realtà, come già menzionato, si ha nell’Acchiapparatti, una favola più classica dilatata appositamente per approfondire tutte le sfumature della parola “fine”. E in questo mix equilibrato di realismo e magia, Ishiguro coglie l’occasione per raccontare anche le fragilità e le debolezze del quotidiano, delle relazioni e le falle della percezione del sé e della vita.
La narrazione è infarcita di elementi ambientali delicati e ben congegnati, come se l’autrice volesse inserire quanti più input possibili in una sola frase, non c’è spazio da sprecare. Per esempio la corsa di Alfie, il protagonista del primo racconto, “Maghi”, diventa l’occasione per mettere insieme dettagli di ciò che il ragazzo vede nella sua corsa, ma anche ricordi e metafore che solo un bambino potrebbe ideare. Alfie corre e rimugina, immagina, si conforta da solo e quello che ne viene fuori è una prosa moderna e leggera, capace di caricarsi di significato senza appesantirsi. Questo il talento di Ishiguro, che sa diventare ciascuno dei suoi personaggi e individuarne i dettagli che li rendono unici e sofferenti, ma mai privi di speranza.
In “Orso” è l’incomunicabilità a intrappolare l’esistenza della voce narrante e di sua moglie, la stessa incomunicabilità che riappare anche in “Problemi di cuore”, racconto in cui un uomo vive in una Londra asfissiante e opprimente e sogna di tornare nella natia Irlanda. Colpisce particolarmente la descrizione che Ishiguro fa di Londra, la sua città, della quale dice:
Londra mi sta mandando fuori di testa, o almeno mi fa stare malissimo in un modo che non riesco a definire, perché è una sensazione troppo generalizzata per essere individuata con precisione.
e ancora
[…] è scomodissimo, sgradevolissimo esistere in questa città, dove sono autorizzati a sopravvivere solo i più adatti […]
In questo racconto, il più universale per tema portante nonché il più commovente per ragioni squisitamente contemporanee, è rappresentata la prigionia della vita moderna, il ritmo esasperante delle aspettative e quell’illusione che ci sia un «io parallelo» che vive una vita veramente felice, libera, ideale. Ma quell’io parallelo non coincide con il sé. E l’intreccio tra le riflessioni di Dan, così si chiama il protagonista, e i voli liberi del suo io parallelo non possono far altro che smuovere quel desiderio di evadere che abbiamo a maggior ragione adesso, prigionieri dell’inevitabile in un loop temporale che ci sembra infinito.
I ritmi frenetici di questa Londra indifferente e caotica ritornano in “Accelera!”, racconto in cui l’efficiente Evgeny abusa del caffè fino a demolire l’idea stessa del tempo, sconfitto dalle sue dipendenze e dal mito del diventare la versione migliore di sé, come tutti i social continuano a ripeterci ossessivamente nel quotidiano.
La magia prende il sopravvento in “La stagione della tosatura”, forse il racconto meno riuscito, e nel malinconico “Il tetto piatto”, in cui scompaiono, rispettivamente, spazio e tempo, e per la prima volta viene il dubbio che la magia salvifica sia la soluzione più veloce, ma forse non la migliore. Ma questo dubbio persiste in tutti i finali che Ishiguro compone: non esiste più il lieto fine della tradizione fiabesca, ma una sua declinazione letteraria amara e consolatoria allo stesso tempo. La speranza è nella magia e il rimorso e l’amarezza riaffiorano inevitabilmente tra destini che si compiono, illuminazioni brevissime ma significative e vortici magici di foglie autunnali che distraggono dalla tristezza.
Un’analisi a parte quella da fare su l’Acchiapparatti, la favola vera e propria in cui un uomo sinistro si reca nel palazzo reale, per conto del sovrano, a sterminare i ratti che lo infestano. Il racconto si sviluppa in tre parti, ciascuna specchio di un destino misterioso che va a compiersi inesorabilmente, ma osservato da un punto di vista diverso: l’acchiapparatti, il re che l’ha convocato e altri misteriosi personaggi di palazzo. Il racconto raccoglie l’eredità Carteriana del mistico e crudele, anche se dilata i tempi della narrazione fino a quasi sfuggire di mano. Ma anche in questo caso l’epilogo, quello finale, porta con sé rimorso e tragica salvezza.
La modernità della scrittura e dei contenuti di “Vie di fuga” è il pregio più grande dell’opera, piena zeppa di momenti lirici reali e tangibili, tanto da far credere che forse la magia esiste davvero. Si pensi, per esempio, a “Problemi di cuore”, racconto in cui la sensazione comune di essere imperfetti si fa universale nella incapacità del protagonista di capirsi e guarire.
«Ti capita mai di avere la sensazione schiacciante di andare in pezzi? Come se il mondo intero si disintegrasse, dividendosi in tanti satelliti individuali? E se i singoli pezzi avessero rinunciato a cooperare, a restare uniti?»
Questo vorrebbe domandare Dan a chi gli sta vicino, ma perderà il momento giusto e rimarrà con questo dubbio nell’eternità letteraria che Ishiguro gli regala, lui vittima di quella «intelligenza controproducente» che gli porta solo domande e mai soluzioni. L’unico conforto è nell’intervento dell’autrice, la cui magia sospende il dolore e prova a rendere migliori, e tollerabili, anche le consapevolezze più devastanti.