Vico è il moniker dietro cui si nasconde il lavoro di Ludovico Sorrentino, napoletano, venticinque anni compiuti alla fine dello scorso anno, nome nuovissimo della scena hip hop con un percorso sospeso tra la crescita degli anni partenopei – prima come osservatore di street jam (tra competizione di breakers ed mc) quindi come parte del collettivo Needful e delle prime battaglie di freestyle fino all’apertura del concerto di Luchè a Policoro – e la “frenetica e dispersiva vista suburbana” come lui stesso la definisce – a Milano, dove si è trasferito dopo una laurea in Economia aziendale per studiare Musica e Spettacolo e dare corpo al suo progetto – Viaggio nella Notte – registrato all’Atlantis Studio.
Progetto interamente indipendente, Viaggio nella Notte è un concept multimediale che include l’album che mescola hip hop e rap per un totale di dieci tracce, un racconto scritto e – al momento – due video cui seguirà, entro il 2022, la pubblicazione di tutti gli altri. Alla base del concept c’è “il cammino introspettivo dell’artista che, in balia di desideri, ricordi, ambizioni e incertezze tipiche del passaggio all’età adulta, interagisce con una serie di proiezioni differenti del proprio ego”. Più che nell’intro Perdersi, in cui Vico si affida a uno spoken word introduttivo, è nella successiva Viaggio nella Notte che emerge la cifra del progetto: dal punto di vista dei testi emerge il tema della frammentazione identitaria – il featuring con Nastarwego è quello con il suo alter-ego adolescenziale – che mette in scena tutta una serie di possibili sé che sono parte del racconto multimediale (seguibile sulla sua pagina Instagram), spunto di riflessione, secondo lo stesso Ludovico, “sulle dinamiche dello straniamento identitario a cui l’individuo è sottoposto nell’epoca digitale”.
Nel video diretto da Giorgio Marangolo, musicalmente emerge un hip hop capace di trovare una propria cifra dentro un universo che, tanto nei sampler che nell’incedere di barre efficaci e diversificate nello stile, guarda – e sia detto come un complimento – più alla scuola old style, anche italiana, degli anni novanta – che a un’ormai consumata derivazione di suoni e stilemi tipici di certo hip hop d’oltreoceano contemporaneo.
E in tal senso, colpisce anche che, in un universo partenopeo così ossessionato da una grammatica musicale del genere legato ormai a doppio filo al disagio sociale con la questione Gomorra sempre sullo sfondo, Vico provi a raccontare dinamiche meno sociali e più personali, non per questo direttamente intimiste. E che quando nelle sue varie voci compare anche la successione di barre in napoletano, questa appare più una bonaria caricatura da parte di chi, orgoglioso delle proprie origini, riesce a dimostrare come si possa fare rap in Campania senza ricorrere a quello stile spesso troppo limitrofo alla solita narrazione criminale.
Da tenere d’occhio.